Galvão. Brasiliano? No, della Bassa cremonese
Giu 13, 2022

Romano Galvani tiene un pallone in macchina. «Ogni sera, prima di andare a casa, lo butto sul prato e via, da solo: mi invento azioni, tiri, assist». Romano è cresciuto a qualche chilometro da qui, nella Bassa cremonese che si incontra con quella bresciana: Barbariga (Manerbio), paese di cocomeri, le «menonere» e di urlatori. «I padri di campagna non scherzavano, allora. Avevano sempre la voce per aria e menavano: sberle da tirare giù i muri». Non solo loro, alla faccia del metodo Montessori. «Il mio maestro ci strappava i capelli. Un giorno li abbiamo raccolti, messi in un sacchetto e l’abbiamo denunciato al direttore». I primi soldi Romano Galvani li fa andando a raccogliere radici, cornetti e carote nei campi. Romano è sempre stato un po’ ribelle o, forse, è meglio dire controcorrente: non gli piaceva partecipare alla creazione dello stereotipo del calciatore e non aveva paura delle parole. Ancora adesso.

Galvani nell’Inter

Dello scudetto che può dire di aver vinto nel 1988-’89, timbrando tre presenze con l’Inter dei record, dice che non l’ha vinto. «Sento più mia la Coppa Uefa raggiunta col Bologna un anno dopo, da titolare». All’Inter arrivò per via dello scambio con Aaltonen. «Una marchetta e lo sapevo, come sapevo che avrei giocato poco». È sempre stato considerato un terzino sinistro, ma lui non la pensava e non la pensa cosi. «Ero centrocampista offensivo, non veloce, piedi buoni, sapevo fare tutto, soprattutto il dribbling, ma da noi l’elasticità non esiste». Nella prima, storica Cremonese di Mondonico e Vialli lo avevano soprannominato «Galvão», per via di due gol al Lecce. A conferma di questa vena sudamericana, la rete, spettacolare, che segnò, con la maglia del Pescara, proprio all’Inter il 13 settembre del 1987 a San Siro. Prima di campionato: stop di petto, finta, dribbling e pallonetto a Zenga. Racconta la sua storia senza concessioni alle eterne ipocrisie del pallone. «Di Galeone ho una grande considerazione come tecnico, ma un giorno mandò il suo vice a interrogarmi su una ragazza che piaceva anche a lui. “Che vuoi?” gli risposi a muso duro. Risultato: all’andata ho giocato 15 partite e al ritorno 2. Non sta in piedi che un allenatore decida per una cosa del genere».

Galvani (in piedi, primo da sinistra) nell’Avellino del 1985-’86

Era un latin lover? «Ero giovane e mi volevo divertire. Ma le donne non le ho mai considerate come un oggetto. Il latin lover deve essere un po’ “figlio di’, io non ho i numeri». All’inizio della stagione 1988-’89 torna per due mesi a Bologna e poi finisce a Milano. «Chiesi a Beltrami: ma che vengo a fare? Non ti preoccupare, mi disse. Infatti: tre presenze. Sempre in panchina». Ricorda anche una squadra molto forte. «L’Inter di campioni ne ha avuti anche dopo, ma il problema è avere alle spalle una società solida. In quell’anno la società era il Trap, anche se all’inizio lo volevano mandare via». Poi vinsero in carrozza e ci fu da dividere la torta. «Ai titolari andava un premio di 238 milioni. A me ne volevano dare 150. Spiegai che chi sta in panchina, normalmente, aveva diritto al 70 percento: calcoli alla mano: 18, 20 milioni in più. Così una volta mi chiamano in fondo al bus e mi processano. Pubblico ministero: Ricky Ferri: “Ci ha dato fastidio la tua insaziabilità”». Dopo l’Inter, il ritorno a Bologna, dove gli fecero fare la fine di Monica Vitti con “Le Monde”:

lo diedero per morto. «Era mancato uno col mio nome che faceva il calciatore nei dilettanti. Feci uno scherzo al grande Gino Pivatelli. Lo chiamo con voce cavernosa: “sono il fantasma di Galvani”. Per poco non gli prende un colpo». Non era un tipino facile. «Detengo un primato mondiale: ho fatto casino non solo se non giocavo io, ma anche se non giocava chi lo meritava. Ho fatto battaglie per Geovani, per Iliev. È per questo che non sono rimasto nel calcio. Se devo vedere che gioca chi ha quel tale procuratore o l’amico dell’amico, allora preferisco le partite di beneficenza con gli amici. E poi, del calcio non ho più bisogno».

I soldi, Romano, non li ha buttati via. Ha un’attività nel campo immobiliare, ben avviata. «Ho sempre sorpreso anche colleghi che guadagnavano più di me. Gerolin mi diceva: “Prendi 250 milioni e ne metti via 300. Spiegami come fai”». Vizi pochi, lussi pure. Si è comprato un Ferrari Testarossa, ma è in vendita. Non va allo stadio. «Per vedere la gente che corre? Allora molto meglio i Mondiali di atletica. Seguo il calcio internazionale, specialmente sudamericano». Frequenta poco i calciatori. Gli amici sono quelli del paese, con cui è cresciuto. Vacanze? Sguardo perplesso. Sempre qui, dove adesso sale la nebbia e d’estate c’è la foschia del caldo accecante. Quel pallone che d’inverno non divide che con se stesso, d’estate lo accerchia d’amici. Barbariga, ogni giorno, ore 18, partitella. Nei campi attorno, a raccogliere radici, cornetti e carote, adesso ci sono gli extra-comunitari. Di menonere ce ne sono sempre meno. Il tempo è inesorabile, solo l’amicizia lo rallenta.

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