La Libertadores è il simbolo del futebol sudamericano
Nov 4, 2023

La Copa Libertadores è un qualcosa di molto simile e vicino ad un viaggio emozionale nel cuore dell’ America Latina. Una lunga serie di accadimenti eccezionali, aneddoti, una pura commistione calcistica e spirituale per andare alla conquista del trofeo più ambito di un continente, dove il calcio è una religione o qualcosa di più. Una storia di trionfi, di campioni, di vittorie spesso impossibili, ma anche di cocenti delusioni, di intemperanze spesso feroci sia in campo che sugli spalti. 

Roberto Espil

L’illuminazione, nel 1946, l’aveva avuta Roberto Espil, un visionario dirigente del Nacional di Montevideo. Con l’aiuto di un altro preconizzatore, il presidente del Colo Colo Robinson Álvarez, sarebbe riuscito a dare vita alla sua creatura, ma solo dopo due anni e tante porte sbattute in faccia. Poco importava: era nata la Copa de Campeones Sudamericanos, il primo, embrionale torneo calcistico sudamericano di respiro continentale, riconosciuto come tale dalla CONMEBOL nel 1996. Poi il vuoto, per dodici anni, prima dell’avvento della Copa Libertadores, la regina del Sudamerica che nel 2020 ha festeggiato il sessantesimo compleanno, anche se ha assunto l’attuale denominazione solamente nel 1965. Da allora è trascorso più di mezzo secolo e tanto, forse troppo, è cambiato, ma una cosa è certa: il fascino della Copa continua a rimanere immutato. Merito anche di partite leggendarie, capaci di segnare epoche e sedimentarsi nei ricordi dei tifosi, contribuendo a generare una mistica ineguagliabile decantata da tutto il mondo del pallone. Vincenzo Lacerenza su “Il Fatto Quotidiano” ne ha scelte cinque.

Peñarol-Wilstermann 7-1, la prima finale

Peñarol-Wilstermann 7-1 (1960) – La prima volta non si scorda mai. Il 19 aprile di 60 anni fa, furono Peñarol e Jorge Wilstermann a ricevere l’onore di tenere a battesimo la nuova competizione, sfidandosi all’Estadio Centenario di Montevideo in un match destinato ad entrare nella storia.

Il Peñarol primo vincitore
Una fase della finale

Il Carbonero guidato da una gloria del calcio charrúa come Roberto Scarone era stato l’ultimo in ordine cronologico a qualificarsi, ma in campo come prevedibile non ci fu granché storia: la prima, memorabile partita della neonata Copa Libertadores, si concluse con una goleada (7-1) in favore del Peñarol, entrato in campo mostrando una bandiera dell’eroe José Artigas, uno dei celebri Liberatori delle Americhe. Alberto Spencer, quello che ancora oggi è il miglior cannoniere all time del torneo, calò addirittura un poker, ma a togliersi lo sfizio di realizzare il primo gol della Libertadores fu il compagno di squadra Carlos Borges, autore di una doppietta: “Se ci penso mi si rizza la pelle”, ha dichiarato in un’intervista il mitico Lucho, scomparso sei anni fa.

River Plate-Peñarol 2-4 (1966) – La finale del 1966 tra River e Peñarol è ricordata come una delle più incredibili e avvincenti dell’intera storia della Copa Libertadores. Due incontri non erano bastati per assegnare il prestigioso trofeo partorito dal genio creativo dell’artigiano d’origine italiana Alberto de Gasperi: al 2-0 incassato al Centenario di Montevideo, i Millonarios avevano risposto con il vibrante 3-2 del Monumental.

Peñarol-River Plate al Centenario

Si rese così necessario il desempate, ovvero uno spareggio da disputare sul neutro di Santiago del Cile. Tutti i favori dei pronostici pendevano dalla parte del River e l’andamento della gara sembrò mantenere le promesse della vigilia: all’intervallo il River conduceva per 2-0 grazie alle reti del “Fantasma” Onega, che in quel’edizione ne fece 17 (record), e Solari. Ma nella ripresa, a dispetto di ogni logica, accadde l’imponderabile: trascinato dal solito Spencer il Peñarol risalì la corrente, vinse 4-2 e si portò a casa la coppa. Oltre al danno, una settimana più tardi per il River arrivò pure la beffa. I tifosi del Banfield, dove i Millonarios erano di scena per una gara di campionato, escogitarono una di quelle cose pittoresche che si possono pensare solo in quel microcosmo magico che è il Sudamerica: presero un gallo, gli fasciarono di rosso le piume all’altezza del petto come a voler simboleggiare la caratteristica banda sangre del River, e poi la lanciarono in campo prima dell’inizio della ripresa.

La goliardata ebbe una vasto eco in tutta l’Argentina: per colpa della disfatta col Peñarol, da quel momento i tifosi e i giocatori del River sarebbero diventati semplicemente “las gallinas“.

Il Barcelona di Guayaquil campione nel 1971

Estudiantes-Barcelona 0-1 (1971) – Partecipare, e segnare un gol in Libertadores, val bene una messa. Deve aver ragionato così Juan Manuel Bazurco, attaccante degli ecadoregni del Barcelona di Guayaquil con un passato da sacerdote. Basco d’origine, in Ecuador il cura era arrivato in missione evangelica, per occuparsi di gestire una piccola parrocchia dalle parti di Quevedo, ma ben presto era stato notato per le sue doti calcistiche: dopo alcune annate in modeste squadre locali, ad ingaggiarlo fu il glorioso Barcelona di Guayaquil, una delle nobili storiche del calcio ecuadoregno.

Trovare spazio in mezzo al “Pibe” Bolaños e soprattutto Alberto Spencer, tornato nel frattempo in patria, non era facile, ma il cura si ritagliò il proprio, personale momento di gloria la sera del 29 Aprile 1971. Si giocava in casa dell’Estudiantes tricampeón.

Passeranno molti anni. L’uomo arriverà non solo sulla Luna, ma anche su altri pianeti e in altri sistemi solari, però i tifosi ecuadoriani si ricorderanno sempre della notte in cui il Barcelona sconfisse l’Estudiantes“. Grazie al prete diventato calciatore, Juan Manuel Bazurco

Sulla carta era praticamente una mission impossible per il Barcelona. Eppure accadde l’impensabile: poco prima del quarto d’ora della ripresa, fu proprio il pretino arrivato dalla Spagna a realizzare il gol decisivo, regalando una vittoria memorabile ai Toreros, passata alla storia come “la hazaña di La Plata“. Indimenticabile il commento a caldo di Aristides Castro, celebre commentatore sportivo di Radio Atalaya, destinato a diventare immortale: “Benditos sean los botines del padre Bazurco”.

Estudiantes-Grêmio 3-3 (1983) – Le grandi rimonte, si sa, rimango scolpite nella mente dei tifosi più di ogni altra cosa. La Libertadores, in questo senso, non fa eccezione. La torcida del Grêmio, ad esempio, ancora non si capacita di come l’Imortal sia riuscito a non vincere la mitica gara del 1983 con l’Estudiantes. L’8 luglio si giocava la quinta giornata del girone di semifinale e la situazione per il Pincha a 15 giri di lancette dal gong era più che disperata: il Grêmio stava conducendo per 3-1, ma soprattutto gli argentini erano rimasti in 7 uomini, il numero minimo legale per continuare a giocare, dopo le espulsioni in serie di Trobbiani, Ponce, Camino e Teves. Tutti davano l’Estuadiantes per spacciato, ma all’improvviso Guerrieri accorciò le distanze, riaccendendo la fiamma della speranza. Sarà Miguel Ángel Russo, ad una manciata di minuti dalla fine, a piazzare la zampata dell’incredibile 3-3, consegnando alla leggenda una delle rimonte più epiche e surreali della storia del calcio. I brasiliani, comunque, torneranno a sorridere di lì a poco, alzando la Copa per la prima volta.

Il Gremio 1983. Formazione tipo: Mazarópi, Jorge Baidek, Hugo de León, Paulo Roberto, China, Casemiro, Renato Portaluppi,
Osvaldo, Caio, Tita, Tarciso

LDU-Fluminense 8-6 dcr (2008) “Con il trascorrere del tempo quello che abbiamo fatto oggi acquisterà sempre maggior valore”. A fare questa profezia, il 2 luglio del 2008, fu Edgardo Bauza, l’allora tecnico della LDU di Quito. Los Albos avevano appena scritto una pagina di storia del calcio sudamericano: battendo in finale il Fluminense di Thiago Silva, la Liga Deportiva Universitaria era diventata la prima squadra ecuadoregna a conquistare la Copa Libertadores. Un trionfo giunto al termine di due gare tiratissime: dopo la vittoria casalinga per 4-2, la LDU era crollata in Brasile, perdendo per 3-1.

La lotteria dei calci di rigore, però, avrebbe premiato gli ecuadoregni, che da quel momento sarebbero diventati una certezza in ambito continentale, guadagnandosi l’appellativo di Rey de Copas: “La Copa non era mai stata in Ecuador. Abbiamo fatto qualcosa di epocale”, ha ricordato il Patón, che sei anni più tardi avrebbe concesso il bis, aiutando il San Lorenzo a mettere le mani sulla coppa più bella e affascinante del mondo.

Condividi su: