Un labirinto di passi per selciati alieni
Ott 19, 2022

Si potesse applicare la ragione al gioco, si arriverebbe a sapere perché un calciatore segna e ribalta: partite e stagioni, o non segna e delude. E di come l’improvvisazione prevalga sugli schemi, meglio riassunta da Manlio Scopigno in: «date la palla a Gigi Riva». In questa lunga storia dei gol di Gonzalo Higuain non c’è ragione – o forse sì, ma è nascosta e non la vedranno che i giornalisti che verranno, quando appunto si conosceranno le ragioni dell’azione, dove risiede anche l’unica speranza, almeno a sentire Jean-Paul Sartre – ma una forza enorme, la sua, che è poi quello che ripetono tutti: da suo padre Jorge fino all’ultimo compagno che gli ha passato il pallone. Higuain appare immune dalla confusione calcistico-generazionale, e intento, invece, a costruirsi, affinarsi, organizzarsi, fino a prendersi la cima. A passare in rassegna le sue prime foto con la maglia che gli cade larga addosso, di lui bambino con un sorriso aperto da un piccolo spazio triangolare tra i suoi denti superiori, fino alle ultime: quelle con la maglia della nazionale argentina nelle foto per la Copa America, c’è sempre lo stesso sguardo acceso di un ragazzo inquieto, uno che ha bruciato le tappe ma non gli è bastato; uno che si è fatto largo in una nazionale dove viene contestato Lionel Messi, dove i “gregari” – di fantasia ed intersecazioni – sono Javier Pastore, Ezequiel Lavezzi ed Erik Lamela; uno che ha tolto il record a Gunnar Nordahl con una rovesciata come vertice di una tripletta; uno che ha rischiato di rimanere inchiodato a due rigori sbagliati: contro la Lazio – concedendole i preliminari di Champions League – e contro il Cile – regalando la prima Copa America al paese –, potremmo dire che nel mondo di Higuain si sbaglia alla grande, aprendo strade alla felicità altrui, ma, invece, questi errori ci servono per capire quanto sia vera l’affermazione che si passano tutti su di lui e a vederla da qui sembra uno schema di Pep Guardiola con la scritta al centro: “Gonzalo Higuain è indistruttibile”, che poi è anche il tema centrale di una biografia che gli ha dedicato il giornalista di “Marca”: Ulises Sánchez-Flor. E, a passare, invece, in rassegna le prime interviste, si capisce anche il resto, Higuain a 14 anni dice che vuole arrivare nella prima squadra del River Plate (quasi una estensione familiare) e di lì a poco ci riuscirà, complice Daniel Passarella, ma poi aggiunge che vuole andare a giocare in Europa, magari al Real Madrid, altra cosa che succederà – grazie a Fabio Capello –, manca il Napoli – nei suoi pensieri non nella sua vita, come vedremo –, che ogni argentino conosce perché è la squadra di Maradona, ma no, lui non ci pensava, allora, come non ci pensava nella sua ultima partita al Real Madrid, perché all’orizzonte c’era l’Arsenal, e soprattutto Arsene Wenger e ora questo pezzo, forse, lo scriverebbe Nick Hornby, e starebbe sull’ “Observer” in uno speciale su Higuain e il romanzo dei suoi gol; ma sempre nel gioco delle probabilità, forse, Higuain non avrebbe battuto nessun record e però metteva dentro il rigore col Cile e oggi Jorge Sampaoli allenava la Lazio, e i minatori cileni rimanevano investiti di nuovo sotto una sconfitta, e via così. Ma è andata diversamente, perché così doveva andare questa storia, e Gonzalo Higuain era legato a Napoli – e ai suoi errori – molto prima che cominciasse a giocare a pallone, e quel nodo si chiama(va) Patrizio Oliva e passa(va) per la boxe, correndo sui treni argentini che non sono mai passati per Londra, per questo non poteva andare all’Arsenal. A verniciare quei treni a dodici anni, era Santos Zacarìas, seguendo suo padre, ma guardandosi intorno (andava in giro a vendere giornali) e scoprendo che usare i guantoni rendeva di più che dare la vernice – i pennelli poi saranno ripresi da sua figlia Nancy ma niente a che vedere con i treni, lei salta dai binari alle tele, dalle stazioni alle gallerie (d’arte) –. Santos con suo fratello Tito Zacarìas – che gli faceva da Don King – allenandosi in una palestra a Temperley, arrivò a sfidare, nel marzo del ’51, Dogomar Martìnez Casal – che ancora oggi è considerato il più grande pugile della storia uruguayana – e perse, claro que sì, ma ne fece tesoro: capì che non doveva continuare a tirar pugni ma insegnare a farlo, e divenne allenatore, anche se ci mise altri dieci incontri per maturare la decisione: meno di Totti e più del padre di Agassi. Sì, è una storia che sarebbe piaciuta a Osvaldo Soriano che avrebbe telefonato a Eduardo Galeano per farsi raccontare del pugile che rappresentò l’Uruguay alle Olimpiadi di Londra del 1948 e giù giù fino al nonno di Gonzalo Higuain. Che, divenuto allenatore e acquisito il titolo di “Don Santos” portò due ragazzi argentini dove lui non era arrivato: ad essere campioni del mondo. Il primo, Sergio Victor Palma, vinse il titolo mondiale dei Super Gallo nell’agosto del 1980 a Spokane negli Stati Uniti, battendo Leo Randolph. Era un guerriero tutto riccioli, cuore e convinzione, che nonostante la sconfitta ingiusta, otto mesi prima contro il colombiano Ricardo Cardona, non si di-sperse proprio grazie al suo allenatore, che lavorò a lungo e duramente per riportarlo sul ring, convinto delle sue capacità, dovendo lottare contro una timidezza che appariva al limite della codardia. A volte non basta essere bravi e lavorare sulla tecnica, per la boxe occorre anche la caparbietà di imporsi in un posto scomodo, scavando con i pugni quello spazio, qualcosa di molto simile a una miniera, almeno a sentire “Don Santos”. Alla fine Zacarìas ebbe ragione, Palma vinse il titolo, ma decise di lasciare la boxe, dopo la vittoria tanto inseguita. L’allenatore ci rimase male, gli sembrava assurdo, per i suoi canoni, salire in cima e mollare. Il secondo, Juan Martin Coggi, fu quello che gli diede più soddisfazione, vuoi perché c’era una maggiore esperienza da parte di “Don Santos”, vuoi perché aveva più fame e voglia non solo di vincere il titolo ma di rimanere sul ring, o vuoi perché l’allenatore mise subito in chiaro le cose dicendogli: «non farmi perdere tempo come quell’altro». E Coggi apprese la lezione, il 4 luglio 1987, aggredì il campione del mondo dei superleggeri, Patrizio Oliva, fino a spingerlo fuori dal ring a pugni. L’aggressività di Coggi – ricordava in piccolo quella di Carlos Monzón, con l’aggravante che l’argentino aveva picchiato Nino Benvenuti – lo faceva sembrare una affettatrice e, dopo aver spinto a terra e fuori dalle corde Oliva: gancio sinistro, gancio destro, montante sinistro, gancio destro, diretto sinistro e il pugile italiano cade oltre il quadrato. Si rialza ma è appannato, lento, intontito, e Coggi, elettrico e veloce il doppio, lo usa come un sacco, pugni su pugni – soprattutto di sinistro – fino a stenderlo al tappeto. Nelle immagini dell’incontro, si vede anche Santos Zacarìas, che poi prende in braccio il ragazzo che aveva imparato la lezione. Cinque mesi dopo a Brest, nasceva Gonzalo Higuain, nipote di Santos Zacarìas. Maradona, che aveva già risolto la guerra con l’Inghilterra: con la mano e i piedi di Dios, dichiarò di voler bene a Patrizio Oliva, ma chiarì che avrebbe tifato per la coppia  Coggi-Zacarìas, uno dei primi vagiti del nazionalismo maradoniano che investì pure Potito Starace a Buenos Aires nell’incontro – poi perso – con David Nalbandian. Così Napoli, con Patrizio Oliva entrò nei ricordi del nonno di Higuain, nell’album di famiglia e nella vita del futuro attaccante. Un nonno dal quale ha ereditato la cura per i dettagli – almeno stando alle interviste di sua madre Nancy, la pittrice – una scuola delle minuzie empiriche, quasi che ci fosse una formula di famiglia che porta al trionfo, oltre il DNA, anzi in aggiunta a questo. Il resto sono coincidenze: le uniche certezze della vita, come ripeteva un grande attaccante portoghese Josè Saramago, in un zigzag che ha come vertice la palestra di Santos Zacarìas ad Almirante Brown, nella provincia del Chaco, dove, poi, suo figlio Alberto Zacarìas crescerà Carolina Duer, campionessa mondiale dei pesi gallo – continuando al femminile la corsa verso i titoli pugilistici –, e si allunga nello stadio Monumental – dove Higuain metterà in pratica tutto il pragmatismo del nonno: segnando ogni volta che serve, dai derby River Plate – Boca Juniors, fino al suo esordio in nazionale – e arriva in Europa: da Brest a Madrid a Napoli. Tipo uno di quei grafici, che ora mostrano tutti dalla tivù ai giornali, con i movimenti in campo, solo che la nostra – anzi quella di Higuain – è una cartina geografico-sentimentale e si muove in un campo che sta tra due continenti. Rimettere insieme questo zigzag higuainesco è quello che proveremo a fare, nessuna speculazione intellettuale troppo intricata, solo vita e pallone, campi e aeroplani, partite e magliette, e su tutto i gol, che sono il linguaggio di Gonzalo Higuain. Se cercate le immagini delle sue prime partite – regista suo padre Jorge – lo vedrete già segnare un gol che credo replicherà fino alla vecchiaia: dopo aver dribblato un difensore al limite dell’area, riesce a calciare in movimento cercando l’angolo lontano della porta – trovandolo –, con la mano sinistra che a pendolo oscilla per dare equilibro alla coscia destra che calcia, e poi lui che si volta e sorride. Se, suo padre Jorge, invece che un difensore del River Plate, fosse stato un Brian De Palma, avrebbe sovrapposto questi gol. Perché, in fondo, è quello che facciamo tutti, in modalità diverse, segnare sempre lo stesso gol, con un trucco che abbiamo imparato attraverso la somma dei nostri errori.

Se uno pensa che le due più grandi squadre del campionato argentino, e tra le più grandi del mondo, sono nate entrambe da un sogno genovese, impastato con la fame e bagnato nel porto di Buenos Aires, allora capisce che davvero la vita sta tutta nei dettagli. Stesso quartiere, Boca, una parte dei genovesi – che erano la maggioranza nel barrio, certo c’erano anche altri italiani e qualche mitteleuropeo –, e allora, nel secolo scorso, la capitale argentina era come la Cina adesso, tutta fatica e immaginazione, e tra fatica e immaginazione c’era il calcio, nascevano squadre come palazzi: c’erano gli inglesi da sfidare, e la malinconia da prendere a calci. A la Boca, nei bar, si faceva e disfaceva, un po’ di più di come poi si faceva e disfaceva negli altri bar del mondo, e così in un giorno del fare: nacque una delle grandi squadre, meno di nove mesi ma stesso travaglio per arrivarci e per scegliere il nome, poi uno se ne uscì con una cosa che aveva letto su una cassa, al porto, e suonava, c’era scritto: “River Plate”, era “Rio de la Plata” tradotto da un inglese che aveva nostalgia di casa, che andò a sovrascriversi a Juventud Boquense, che era come si chiamava la prima versione del sogno. Presa. L’altra parte dei genovesi – si certo, c’erano anche altri mitteleuropei e qualche spagnolo –, forse per un pragmatismo spiccio o per ripicca si tenne il nome del quartiere e ci mise anche un musicale forse persino aristocratico – per alcuni di loro – Juniors, risultato: Boca Juniors. Il resto è storia. Cento e fischia anni di storia. Partite, emozioni, vite. Un po’ di più che da noi, come cantava Francesco Guccini «disegnando un labirinto di passi tuoi per quei selciati alieni», perché laggiù c’è «la capovolta ambiguità d’Orione e l’orizzonte sembra perverso». E andare a vedere Boca-River e River-Boca (sono due cose differenti perché i due stadi sono due mondi, come se fossero in stati differenti) è una di quelle cose che bisogna fare prima di morire. Basti pensare che sì, poi ci sono moltissime altre squadre e tutte con storie grandiose, con città come Rosario che rappresentano l’altro pensiero, l’altra scuola, ma perlopiù i calciatori argentini oltre che bravi e non, si dividono in Boca e River. Questa lunga premessa l’ho fatta perché ormai lo sapete tutti, credo persino Alessandro Baricco, che Gonzalo Higuain è un figlio del River Plate, c’è cresciuto e ci tornerà come Tevez col Boca Juniors. Per capire certi legami bisogna amare le passioni e capire le commozioni, come quella di Alfredo Di Stefano – che non a caso a Higuain voleva un gran bene, fin da quando se lo vide recapitare a Madrid poco più che maggiorenne –, e poi declinare i campioni che sono passati al River e che hanno fatto dopo la storia della squadra quella del paese: Omar Sivori, Bruno Pesaola, Adolfo Pedernera, Mario Kempes, Daniel Passarella, Gabriel Batistuta, Hernan Crespo, e ne dimentico molti altri. Facciamo un passo indietro e torniamo al nonno di Higuain, Santos Zacarìas, grande allenatore di boxe, uno dei suoi figli, Alberto continuerà l’imprese di famiglia declinandola al femminile e crescerà Carolina Duer; l’altro figlio maschio, invece, giocherà al calcio, scendendo dal nord dell’Argentina fino alla Bombonera, giocando col Boca Juniors.

Adesso vi dico una cosa: la condizione di doppio di Gonzalo Higuain di cui poi vi dirò in seguito passa per questa storia qua e per il salto di sport. Andiamo avanti. Nel 1986, Claudio fa l’esordio con il Boca, un anno prima della nascita di Gonzalo e del nuovo successo paterno ai danni di Patrizio Oliva. Claudio Hugo Zacarìas è un difensore come suo cognato Jorge, padre di Gonzalo, e gioca centrale davanti al portiere Hugo Gatti, quello con la faccia la indio, la fascia in fronte, i capelli lunghi, i primi dribbling fatti da un portiere, e i fuorigioco chiamati prima di Franco Baresi – stessa credibilità –, e che perse la scommessa con Maradona, subendo da lui quattro gol in una sola partita. Ha anche un’altra caratteristica Gatti, è stato del River Plate, quattro anni, si giustificò dicendo che lui comunque era un loco, uno fatto apposta per il Boca (per capirla dovete sapere che quelli del River sono i fighetti e quelli del Boca no). Sì, poteva succedere. Anche Claudio ha i capelli lunghi, e non gli basterà un anno di Boca per tatuarsi la fedeltà, poi andrà al San Lorenzo dove prima della partita con l’Istituto di Córdoba, una bomba piazzata di fianco agli spogliatoi dai barra brava dell’Istituto, gli farà perdere buona parte dei movimenti della mano e del braccio, rischiando anche l’amputazione. Solo l’educazione paterna e l’abitudine alla lotta lo salvarono dalla depressione. Scosso, andò a giocare in Turchia, poi tornò in Argentina in B Nacional col Talleres – dove fece in tempo ad incrociare un ragazzino che giocava dietro con lui: Javier Zanetti – smetterà di giocare a 27 anni. Ma il giorno dell’esordio, quello col Boca Juniors sapete al posto di chi entra? Di Jorge Higuain, perché anche il papà di Gonzalo prima di finire al River Plate passò un anno col Boca, in quella sostituzione c’è tutto, lo scambio di treni – verniciati dal nonno – tra Claudio, sua sorella Nancy e Jorge, il risultato è Gonzalo. Jorge già conosceva Nancy che infatti era dispiaciuta della sostituzione: avrebbe preferito vederli insieme e non avvicendarsi. Vi avevo avvertito sui dettagli, il vecchio Karl Marx che non aveva giocato a pallone ma aveva capito molte cose della vita diceva: «l’indagine deve appropriarsi della materia del dettaglio», appunto, eccoci. Quell’anno il River Plate vinse il campionato, e c’era a guidarlo, un calciatore che poi diverrà l’indolo di Gonzalo Higuain e che ci aiuta nel racconto del suo essere doppio: Enzo Francescoli, il cui fratello Luis Francescoli operò, salvandogli il mondiale, Luis Suarez – oggi il suo maggior rivale con Robert Lewandowski nel ruolo del nove – sempre per quel giochino saramaghesco delle coincidenze, anche la storia del nonno di Gonzalo passa per l’Uruguay e l’incontro col grande pugile Dogomar Martìnez CasalTutto comincia il 29 maggio del 2005, a diciassette anni, Higuain debutta al Monumental nella prima squadra del River Plate, contro il Gimnasia La Plata:  «Quel giorno ho perso, ma è la cosa meno importante, ho goduto della partita, e del mio sogno di debuttare nella prima squadra». Suo padre Jorge ex difensore proprio del River dirà: «Ha avuto quello che cercava, a volte ho l’impressione che Gonzalo possegga la bacchetta magica». Seguiranno altre tre presenze in quel campionato. L’allenatore che gli aprì il campo sarà Leonardo Astrada, quello che gli diede la certezza della maglia, liberandolo dall’ossessione dell’attesa, facendogli sentire tutta la sua fiducia fu Daniel Passarella, e lui ricambiò con due gol al Boca Juniors – 8 ottobre del 2006 –, che in Argentina, sponda River, bastano per tutta la vita e anche oltre se poi il primo lo segni di tacco e il secondo alla Roberto Baggio anche se Higuain pensava a Francescoli, scartando il portiere. Se cercate il video vedrete un Passarella così felice da non sapere cosa fare, se conoscete la sua storia da picchiatore e uomo fin troppo serio, uno che godeva nel picchiare, proprio come dichiarava a Gianni Mura, dolendosi della differenza antropologica con i difensori di oggi: «gente che picchia perché è scarsa, io picchiavo per il piacere di picchiare», vi sarà facile capire l’impresa di Higuain, calcistica e umana, ed era “solo” alla sua ventiseiesima partita, con dieci gol all’attivo. La prima rete col River l’aveva segnata il 12 febbraio 2006 contro il Banfield: tocco infido che anticipa due calciatori e portiere, in quel caso Passarella fu inflessibile, si tenne sobrio. In Coppa Libertadores, sei partite con due gol, al Corinthians, due tiri che dicevano: vado in Europa. L’intero Monumental sa – come diceva Osvaldo Soriano – che “il calcio è dubbio costante e decisione rapida” e il campionato argentino somiglia a uno di quei muri dove tutti attaccano manifesti, il risultato è un Mimmo Rotella portato in curva e in petto: sovrapposizione, stratificazione e nostalgia, aspettando che il campione torni. Ma il motto del nonno, Santos Zacarìas, è «Aprendì qua para ganar afuera hay que noquear». Tradotto e spiegato viene che devi farti onore fuori casa per vincere veramente. Una cosa tipo andare a giocare al Real Madrid per metterti tra il ricordo di Ronaldo – la scia della sua stanca solennità –, camminando nel buio dell’ombra di Raul.

Con Passarella al River Plate

Per raccontare che cosa sono stati gli anni al Real Madrid di Gonzalo Higuain, e per capire perché un attaccante così forte – che aveva realizzato il suo secondo sogno, dopo quello di giocare nel River Plate – viene lasciato partire, bisogna raccontare chi è Florentino Pérez Rodríguez, e ancora non basta, perché prima bisogna passare per l’insaziabilità del tifo del Real. C’è una storia, scritta da Jorge Valdano, che ci aiuta: il giorno dopo l’ingaggio di Zinédine Zidane da parte del Real Madrid – siamo nel 2001 –, una giornata importante, giornali e tivù raccontavano l’acquisto record (fino a quel momento il più caro della storia del calcio, poi sarebbero venuti gli altri da Owen a Cristiano Ronaldo fino a Bale). La città era in festa, Florentino Pérez – presidente – e Jorge Valdano – direttore sportivo – escono dalla sede della squadra per andare a mangiare in un ristorante vicino al Bernabéu. “Andavamo con la guardia abbassata, soddisfatti di quello che, così credevamo, era stato un lavoro ben fatto. Ma un tassista che passava da quelle parti ci riportò alla realtà con un urlo: «Florentino, compralo ’sto cazzo di Mendieta, una volta per tutte». Gaizka Mendieta, in quei giorni, era un giocatore di moda nel calcio spagnolo. Quando il presidente del Real Madrid tornò in sé, disse l’unica cosa che quel momento meritava: «I tifosi sono proprio insaziabili»”. Sì, al punto di passargli quell’insaziabilità, facendogli dimenticare tutto, anche lo stesso Jorge Valdano che anni dopo verrà sacrificato in nome di Josè Mourinho, come prima era stato licenziato Vicente del Bosque: gli dissero che era poco galactico e molto viejo, gordo, anche se ganador, non bastava. Avrà pensato come il professore di storia di “Schindler’s List”: da quando è che non serve? Due Champions? Una coppa intercontinentale? Era il metodo Florentino Pérez. Prima di andare avanti mi preme raccontarvi che ora Mendieta fa il deejay a Middlesbrough, e viene annoverato tra le delusioni. E che del Bosque andò al Beşiktaş come Federico Higuain dopo una brutta stagione al River Plate, quella turca più che una squadra sembra un posto dove uno va a ritrovare se stesso. La prima presidenza Pérez va dal 2000 – vinse con la promessa poi mantenuta di prendere Luís Figo – al 2006, quando gli succede José Calderón che compra Higuain e lo presenta dicendo: «Il suo talento è grande quasi quanto la sua umiltà». Il ragazzo doveva essere l’anello di congiunzione tra il consumato Ronaldo – che andava al Milan – e il consumando Raúl che rimaneva a fare il senatore. Per capire quanto quest’ultimo conterà per Higuain – che lo aggiungerà sempre ogni volta che sarà chiamato a dare il suo elenco di esempi – bisogna raccontare un’altra storia: spogliatoio del Real Madrid, partita chiave di Champions, Ronaldo (il brasiliano) e Roberto Carlos palleggiano come da spot, tutti rapiti, poi passa Raúl e dice: «Per vincere, quella roba non serve a niente». Avete mai visto Gonzalo Higuain fare la foca col pallone? È perché figlio di Raúl, ricordatevelo, ci tornerà utile in seguito. Tre anni dopo rivincerà Pérez per la sua seconda volta alla guida del club, e già questa successione spiega moltissimo, aggiungeteci il ritratto di Calderón fatto ad Higuain, ricordatevi di Vicente del Bosque e vi apparirà l’argentino con la maglia numero nove del Napoli. In realtà non è tutto così lineare e quando Higuain viene aviotrasportato a Madrid su richiesta di Fabio Capello, il contesto era molto molto diverso. Scriveva Jacinto Benavente – che per aver felicemente interpretato la tradizione del dramma spagnolo c’ha vinto un nobel per la letteratura –: «La cosa migliore del fare l’amore è quando saliamo le scale», quell’aeroplano che dall’aeroporto “Juan Pistarini” di Buenos Aires si alzava verso Madrid, era pressappoco quella cosa lì per Higuain: salire le scale. E mentre sale le scale, dovete immaginarvi Ronaldo (quello vero) che le scende per uscire e in cima alla salita Raúl, in questa immagine c’è la carriera di Gonzalo Higuain. Il resto sono gol, il primo lo segna nel derby contro l’Atletico: un passaggio d’esterno dell’immobile Cassano – che sembra Zidane – gli apre un corridoio, Higuain lo vede, prima dell’intera difesa avversaria, lo percorre e supera il portiere: a Madrid capiscono che ha il fuoco. Chi c’è ad abbracciarlo? Raúl. Il suo primo gol al Bernabéu, invece, regalò il titolo alla squadra in una partita assurda contro l’Espanyol che chiuse il primo tempo sul 3 a 1. Nel secondo tempo la squadra di Fabio Capello trovò il pareggio, e al ’90 – sì, proprio come in un film – Higuain con la grinta da pugile del nonno Santos Zacarìas tolse il pallone dai piedi di Chica Torres, e la girò a Reys che gliela restituisce tipo Insigne contro la Juventus quest’anno, e lui la mette in porta, Capello sembra Coggi dopo aver steso Patrizio Oliva, ma vincere la Liga non basta a tenerlo sulla panchina, dice che «gioca da povero nella squadra più ricca del mondo». Arriva il nuovo allenatore Bernd Schuster che però dice che non sa dove metterlo. Non è una grande stagione la sua, per ritrovarsi sapete dove andrà dopo aver lasciato il Real Madrid? Al Beşiktaş. Higuain, invece, deve aspettare che si faccia male van Nistelrooy e che sulla panchina si sieda Juande Ramos per poter dimostrare che non ha problemi col gol, i ruoli e soprattutto le partite intere. La sua “partita” è quella contro il Malaga (4-3) dove segna quattro gol, due su rigore, ma a rivederla, capelli lunghi – a chiodo e fascetta alla Totti – sembra un altro, e appare come il leader della squadra. Dei quattro il più bello è il terzo: un gran destro da fuori area, per capire dovete guardare l’esultanza di Casillas che sembra Pepe Reina. In quella stagione ne segna ventidue, con nove passaggi decisivi in trentacinque partite giocate. Quello che adesso si vede anche col Napoli, Higuain è un grande fornitore di assist perfetti che lascia intravedere un futuro da Di Stefano, quando rallenterà potrà sempre arretrare e mettersi a lanciare, che poi era quello che gli piaceva fare prima che arrivasse nelle aree di rigore. Per capirlo basta leggere la sua prima intervista a “El Pais” dove, chiamato a scegliere i suoi modelli, dirà: «Ortega, Gallardo, Salas e Francescoli», tutti ovviamente targati River, e con il solo Salas vero attaccante. Solo nelle successive indicherà Raúl come modello, del quale ha il pragmatismo, la concretezza, la voglia di decidere le partite, di non attraversarle soltanto. Higuain stacca la spina dal mondo, entra in trance, solo così si spiegano le uscite di testa come quella con l’Udinese, e la conseguente espulsione. Corre, tira, vuole il pallone sempre, sbaglia, tira, si riprova, entra ed esce dalla giocata, arrivando a impostarla persino, provando e riprovando fino al gol. Questo si capisce l’anno dopo, annata Manuel Pellegrini, prima di infortunarsi segna tre doppiette contro il Getafe, Valencia e Zaragoza, poi si ferma per tre settimane e quando rientra segna contro l’Espanyol. La partita è quasi finita, Pellegrini lo fa entrare sul due a zero, è un modo per rimetterlo il corsa, al novantesimo riceve un lungo lancio di van der Vaart, che stoppa a mezz’aria liberandosi del difensore e portandosi il pallone in area e poi lo mette in porta. Nel cambio da un piede all’altro c’è la differenza. Quell’anno segnerà più del suo compagno di squadra Cristiano Ronaldo, ventisette gol. È il calciatore che permette al Real Madrid di essere la prima squadra a raggiungere settecentesimo gol in Champions League (contro il Milan) e prima di andarsene, stagione Mourinho, segnando una doppietta al Real Sociedad raggiunge i cento gol con la maglia del Real Madrid.

Gonzalo e Federico Higuain

Il rumore degli errori calcistici nell’infanzia è sempre quello di un vetro rotto. La differenza tra un calciatore di estrazione borghese e uno che viene dalla strada: sta tutta nella proprietà del vetro rotto, il primo romperà quelli di casa sua, il secondo quelli delle case degli altri. Poi qualcuno dimentica quel rumore, qualcun altro no. La madre di Gonzalo Higuain racconta dei vetri rotti da lui, e da suo fratello Federico (gli altri due fratelli Nicolas e Lautaro non giocano a calcio). I due apparecchiavano partite ovunque, distruggendo di tutto, la loro geometria partiva e finiva con rettangoli di campo che scorgevano in ogni spazio della casa, lasciandosi dietro la disperazione di Nancy. Nei suoi racconti c’è una immagine che sembra uscita da un film di Paolo Sorrentino o che potrebbe essere la continuazione in chiave calcistica de “Il nuotatore” di John Cheever – anche perché allora la famiglia Higuain viveva a Coghlan: un barrio dove la case hanno uno stile inglese –; la storia è questa: stufa delle devastazioni in giardino, sì, i ragazzi avevano smesso di giocare in casa, lei fece costruire una piscina per interrompere spazi e partite, ma Gonzalo e Federico non si arresero, anzi, utilizzarono il vuoto della piscina che aveva preso il posto del campo improvvisato in giardino, per perfezionare la loro tecnica, e come in uno spot con David Beckham, si sfidavano passandosela da un bordo all’altro – pare anche di rabona –; questa immagine contiene non solo la capacità di non arrendersi di due ragazzini, ma anche la loro forza immaginativa, tanto che Federico – di tre anni più grande di Gonzalo – ha segnato negli Stati Uniti nel marzo di quest’anno con la maglia dei Columbus Crew, nella Major League Soccer, un gol in rovesciata molto simile a quello segnato da suo fratello al Frosinone, tradendo una tecnica comune a questa generazione di Higuain, e anche la capacità che hanno conservato di passarsi la palla: Federico il gol l’ha segnato alla prima giornata, Gonzalo all’ultima. Quella piscina che li separava nei giochi poi è diventato l’Atlantico, anche se per un po’ sono stati insieme al River Plate, stesso ruolo: attaccante – anche se Gonzalo all’inizio partiva da più lontano –; e poi anche avversari nello stesso campionato, con Federico che nello scontro diretto segna e Gonzalo no, la partita era River Plate contro Nueva Chicago (dove aveva cominciato a giocare il padre Jorge), al Monumental, per 2-1, per la squadra del barrio di Mataderos – un posto di confine tra la città e la campagna, infatti è famoso per il mercato di bestiame e il mattatoio – ancora una volta un bordo, quello estremo contro quello centrale dei Los Millionarios.

Era prima che la piscina si dilatasse, quando il miglior ritratto dei due l’aveva fatto non un giornalista ma Daniel Passarella: «A vederli da fuori sembrava che fosse solo un caso di omonimia, non tanto per la qualità quanto per l’atteggiamento, uno entusiasta, convinto, l’altro schivo, quasi insicuro». Poi Gonzalo andò al Real Madrid, e Federico – che ha una faccia da marinaio di Ulisse – prese a girare cercando il posto dove poteva essere speciale, essere se stesso e non il fratello di Gonzalo. Le tappe furono Beşiktaş ma a Istanbul non funzionò. Allora tornò in Argentina (Independiente e Godoy Cruz), provò anche col Messico (Colon), poi nel 2012 – con un giro da Cristoforo Colombo: «Non è stato facile arrivare fin qui» – sbarcò nella Major League Soccer voluto dal tecnico polacco, l’ex-attaccante Warzycha. Il suo posto speciale si chiamava Columbus, Ohio, la squadra Columbus Crew Soccer Club, e in 13 partite segnò 5 gol ed elargì 7 assist, guadagnandosi la palma del “MLS Newcomer of the Year” – la faccia migliore del campionato –, ancora è lì, e ora non solo è l’idolo della squadra dopo la partenza del connazionale Schelotto ma il nuovo tecnico Berhalter lo ha spostato più avanti, vicino alla porta, in un movimento che anche Gonzalo ha fatto. «Adesso in Ohio mi sento a casa», dice spesso Federico, mentre suo fratello Gonzalo ripete la stessa frase ma in italiano. Con un po’ di immaginazione potete anche vedere la piscina che dall’Ohio arriva a Napoli. «Cerchiamo di rimanere in contatto il più possibile. Negli ultimi sei anni ci siamo visti due o tre volte l’anno. Ma non è facile visti i posti dove ci hanno portato le nostre carriere. Una delle cose dure dell’essere professionisti nel calcio è che ti porta lontano dai tuoi fratelli e genitori». Una cosa poco raccontata è che per una rissa durante una partitella scatenata proprio da Federico in lite con Gonzalo ai tempi delle giovanili del River Plate (qua i fratelli Higuain scoprono la differenza tra i vetri rotti a casa e quelli che invece li rompevano per strada), quando il primo aveva 13 anni e il secondo 10, il piccolo Gonzalo si prese una pausa, convinto di non voler più giocare concentrandosi sugli studi. Poi lo convinsero a tornare. Gonzalo ha sempre goduto di molta libertà, il perché viene da lontano, quando aveva dieci mesi rischiò di morire, e solo l’istinto di sua madre Nancy – che sì, sembra una donna saltava fuori dalle pagine di Julio Cortázar – lo salvò. Ottobre 1988, Gonzalo ha dieci mesi e una febbre che non va via, cala anche la ricettività, suo padre Jorge non si preoccupa è abituato alle aree di rigore del campionato argentino, pensa che tutto sia passeggero come i cross e i colpi dati e subiti, ma Nancy no, si allarma, dopo dirà di aver sentito suo figlio scivolarle via, di aver sentito una distanza enorme tra loro, e no non era la piscina dei giochi con Federico. Chiamano l’ambulanza che non arriva, e allora corrono all’Hospital de Niños, prima visita, ma Nancy non è contenta, la sua sensazione è più forte della diagnosi – poi rivelatosi errata –, al secondo tentativo si scoprì la meningite. Gonzalo si fece quasi un mese in terapia intensiva, col rischio che non ne uscisse o che rimanesse con problemi mentali o che non riuscisse a coordinare i movimenti. Seguirono mesi di cure e di apprensione, tutto il River Plate fu vicino a Jorge e Nancy, a cominciare dall’allenatore César Luis Menotti e poi dal suo successore Daniel Passarella. Quattro anni dopo Gonzalo correva nel campo coperto del Club Palermo, e lui e il pallone erano inseparabili. Poi «nel 1992, avevo cinque anni, mio padre vinse il campionato col il River e mi portò in campo con lui, da allora non mi sono più staccato». Non sapeva ancora che calciatore sarebbe diventato, finendo persino immortalato dal Subbuteo; non sapeva che i suoi gol avrebbero ingannato il tempo a Buenos Aires, Madrid e Napoli; che avrebbe usato una piscina per accrescere la capacità di controllo e tiro col pallone e che quella piscina si sarebbe dilatata all’inverosimile; non sapeva che avrebbe giocato una finale di Coppa del Mondo con la nazionale argentina e che al cospetto di Neuer avrebbe sentito i vetri di casa sua a Coghlan rompersi di nuovo e poi li avrebbe risentiti anche in Cile, senza per questo smettere di giocare, proprio come faceva da bambino; che avrebbe battuto il record di un attaccante svedese, un marcantonio due volte lui con una rovesciata simile a quella segnata da suo fratello Federico negli Stati Uniti contro i Portland Timbers; che sarebbe andato al Real Madrid – dove don Alfredo Di Stefano l’avrebbe fatto sentire meno solo – e poi nella squadra di Maradona; che avrebbe scavalcato difese e oceano, barriere e portieri; che avrebbe segnato di tacco in un Superclásico (River-Boca) e poi anche dribblando il portiere, stupendo mezza Baires e soprattutto Daniel Passarella, e facendo piangere suo padre Jorge; che avrebbe dribblato dubbi e perplessità, divenendo la vertigine dell’attacco, il riferimento, l’uomo da guardare, seguire, servire, giocando insieme a un altro ragazzino che non sarebbe dovuto crescere né essere in campo: Lionel Messi; che avrebbe portato il futuro in sé “come la primavera nella foglia nuova” per dirla con Jorge Luis Borges; insomma una vita da fare invidia, figlia di un tackle, quello di sua madre Nancy.

Con Manuel Pellegrini

Il calciatore è sempre un uomo da convincere, insicuro, viene mandato in mezzo al campo, sotto i riflettori, va aiutato a superare la paura, il nervosismo (per la fatica c’è la sostituzione), ed è questo che fa un allenatore. Che urli e si dimeni come Diego Simeone o che abbia un comportamento distaccato e calmo come Carlo Ancelotti – non a caso Zinedine Zidane che gli fu secondo, cerca di imitarlo quasi scomparendo in panchina –, l’obiettivo di tutti rimane la credibilità. Poi ognuno sceglie come essere credibile agli occhi dei calciatori, questa stagione e Claudio Ranieri col Leicester, ci hanno insegnato che niente è scontato. Jorge Valdano ne “Il sogno di Futbolandia” scriveva: «il calciatore è un attore obbligato a recitare un’opera sconosciuta davanti a un avversario che fa di tutto per impedirglielo».  Poi ci sono calciatori che hanno bisogno di avere un contatto con la panchina e calciatori che se ne dimenticano completamente, di solito i primi risultato essere i migliori, i secondi – salvo rarissimi casi che si contano su una mano sola – finiscono per cambiare idea. L’equilibro di un buon allenatore sta nel capire i suoi limiti, e nel comprendere le capacità dei suoi calciatori, Cruyff – che era un Cruyff cioè un tiranno fuori e dentro al campo – al Barcellona a Romario lasciava sempre una percentuale di non detto, e soprattutto di libertà d’azione. Questa premessa serve per raccontare Gonzalo Higuain e i suoi allenatori. Partendo dal fatto che Higuain appartiene a quei calciatori che vanno rassicurati, e messi a proprio agio, affinché superi quella che Gabriel Garcia Marquez chiamava “paura del palcoscenico”, lo so sembra strano per un calciatore abituato a grandi stadi, a grandi club e a grandi partite, ma non a caso ho scelto la paura di un grande scrittore e non una qualsiasi. In pratica l’espressione del calciatore e in particolar modo dell’attaccante che ha bisogno che la sua prestazione venga accompagnata dal gol sta tutta nel nascondere la sua vulnerabilità, parte della riuscita dipende dall’allenatore. Se così non fosse non si spiegherebbero certi ritorni paragonabili alla rialzata del palestinese Lazzaro di Betania  – che pure aveva subito un brutto fallo da rigore –. Stando alle statistiche, e si dovessero tracciare tre momenti di minima vulnerabilità con resa maggiore nella carriera di Higuain allora dovremmo segnare le stagioni con Daniel Passarella – gol pesantissimi – al River Plate, Manuel Pellegrini – la ripresa e più gol segnati di Cristiano Ronaldo – al Real Madrid, e Maurizio Sarri – il record – al Napoli. Certo per Higuain sarà importante l’esordio dovuto a Leonardo Astrada, la scelta di Fabio Capello che lo porta a Madrid, come quella di Benitez che lo mette in salvo dai tormenti del turnover offrendogli una possibilità di fuga nella squadra che fu di Maradona – l’allenatore che lo fa esordire nella nazionale argentina – anche se è Sabella quello che tira fuori i risultati migliori, non possiamo ancora giudicare Tata Martino, lo faremo dopo la Copa America di questa estate negli Stati Uniti. Passarella è stato un secondo padre per Higuain, c’era quando a dieci mesi rischiò di non giocare più, e c’era quando lui e suo fratello Federico crescevano nei binari del River Plate (di cui Passarella è stato calciatore, allenatore e presidente), e c’era quando Gonzalo era tra i giovani della prima squadra che andavano rischiati, per capire. E la frase che negli anni Passarella è andato ripetendo è stata sempre: «Creo que Higuaín vale el doble de lo que se dice». Più che uno scudo a difesa della vulnerabilità, una scommessa ribadita negli anni. Per il cileno Manuel Pellegrini – che pure ha allenato il River Plate ma quando c’era Federico Higuain e non lo faceva mai giocare, solo cinque presenze e al padre Jorge che gli chiedeva di restare nella squadra del cuore di famiglia rispose: «Perché dovrei rimanere?» – che arrivò al Real Madrid dopo Bernd Schuster che dichiarò: «no sabe meterlas» alludendo ai pochi gol, e il meno galactico Juande Ramos che senza dubbi capì che il ragazzo sapeva metterla dentro, doveva solo giocare, e infatti fu il miglior marcatore stagionale della squadra. A Pellegrini – come poi accadrà a Maurizio Sarri nel dopo Rafa Benitez – non restò che parlare con Higuain e forse lo fece con più cura temendo che suo fratello Federico gli avesse passato il suo odio, tanto che Higuain alla prima conferenza stampa dichiarò la sua sorpresa per l’enorme fiducia che il tecnico gli aveva mostrato e per la grande capacità di dialogo. Il resto lo fece Rubén Cousillas che era assistente di Pellegrini al Real, ed era un vecchio compagno del padre di Gonzalo, avevano giocato insieme nel San Lorenzo. Il risultato fu che Higuain segnò ventisette gol, uno in più di Cristiano Ronaldo. Poi arrivò Mourinho che cacciò Jorge Valdano ma che non vinse la Champions League ma solo la Liga. Durante la festa al Bernabéu dopo la presentazione di Sergio Ramos tutto lo stadio gli urla: «Pipita, quédate! Pipita, resta!», e lui avrebbe potuto prendere in prestito le parole di suo fratello e rispondere «Perché dovrei rimanere?». Non lo fece, li ascoltò e rimase un altro anno prima di andarsene, dopo sei stagioni, arrivando al Napoli di Rafa Benitez che gli promise quella serenità e quella fiducia che erano venute a mancare a Madrid. Ma il meglio l’ha dato con Maurizio Sarri. C’è una foto, la loro prima insieme, dell’arrivo di Higuain, dopo la Copa America in Cile, a Dimaro dove la squadra è in ritiro: Sarri sembra uno che ha vinto al superenalotto, e subito lo stringe, lo tocca come si fa con i cavalli, prende possesso del bene – molto mobile – mentre Higuain sorridendo guarda De Laurentiis. Sarri sembra già sapere tutto, Higuain no. Tempo dopo, quando l’attaccante scartava e correva di lato dando punti ai suoi rivali, e segnando in ogni partita, disse: «Sarri è come mio padre, mi ha detto subito ciò che pensava di me, nel bene e nel male. In fondo crescere è imparare dagli errori». E Sarri, invece, come Passarella al River Plate anni prima, ha passato la stagione a ripetere: «Può fare di più, deve ancora migliorare». Si può scorgere nei tre allenatori una continuità di dialogo e fiducia che ha funzionato, anche se a Sarri manca la panchina del River Plate – può sempre capitare in futuro, chissà –, ha, invece, colmato l’estraneità con la famiglia di Gonzalo, diventando una figura importante, aggiungendosi al folto albero genealogico–sportivo degli Higuain. Sul perché agli altri allenatori non sia riuscita l’operazione o sia riuscito solo in parte o sia riuscita con altri e non con Higuain, è difficile rispondere, poiché il calcio vive di indefinizione, chi riesce a stabilire il maggior numero di traballanti certezze, forse, vince. Chi lavora sulla diminuzione della vulnerabilità dei suoi calciatori, forse, vince. E via così. Perché come sostiene Jacques Thibert, editorialista di “France Football”: «il calcio è più semplice della teoria di Einstein e più difficile che fare due più due».

Con Maradona in nazionale

Tutti pensarono, sotto gli ombrelli al Monumentàl, Maradona è fottuto, Maradona è fuori dal Mundial. Invece, andò diversamente. Era già successo a Cesar Menotti durante una partita nel 1978, Argentina contro Polonia. Stesso stadio ma non pioveva, c’era un vento assurdo. Alla radio, “lo speaker d’America”, come si faceva chiamare el gordo Munoz – un fascista al servizio del trio Videla, Acosta, Massera – gli stava facendo la barba con un machete: «Per 30 milioni di argentini è arrivato il momento della verità: Menotti devi mostrarci le tue carte, i tifosi non apprezzano più il tuo gioco: dovresti trovare il coraggio di lasciare il posto!». E quando la Polonia segnò: aveva rincarato la dose, mancava solo che esultasse. Menotti a venti minuti e con quel risultato non sarebbe andato ai mondiali. Nemmeno riusciva ad incitare la sua squadra, aveva capito che sarebbe finito male, non aveva la forza per gridare. Lo fece per lui Daniel Passarella, uno che quando si trattava di lottare c’era sempre, e oltre a sbraitare la buttò in avanti dove c’era Mario Kempes che la mise in porta, come poi avrebbe fatto per tutto il mundial. La gente prese ad urlare il nome di Menotti e perfino il gordo dovette rimangiarsi le parole e la sua personale lettura della biografia del CT argentino. «Menotti no se va!» Più del gol fu l’urlo di quarantamila argentini che lo mandò ai mondiali. Anche perché Menotti – comunista – era mal visto dalla giunta che controllava il paese. Il giorno dopo i titoli dei giornali erano un rosario di “Menotti è l’uomo giusto per la Selección”, ed è anche l’uomo che riporta Jorge Higuain in Argentina, lo aveva allenato al Boca Juniors e lo rivolle con sé al River Plate, senza quella chiamata Gonzalo Higuain avrebbe passato altro tempo in Francia, per la precisione a Brest, dove suo padre giocava. Anni dopo se ne sarebbe ricordato, Raymond Domenech, CT francese, forse perché i suoi oroscopi gli dicevano che quel ragazzo avrebbe fatto grandi cose col pallone, forse per intuito, fu quello che tentò in tutti i modi di usare la nascita francese dell’attaccante argentino. Quello che non sapeva Domenech e che soprattutto non dicevano i suoi oroscopi è che c’era un precedente illustre, no, no non David Trezeguet che poi aveva scelto la Francia, ma Carlos Gardel, padre della patria e della legge non scritta: un argentino è un argentino ovunque – il resto l’ha fatto Diego Armando Maradona esercitando la sua autorità prima che di CT della nazionale di co-padre della patria proprio con Gardel, Ernesto “Che” Guevara ed Evita Peron, chiamando Gonzalo Higuain in nazionale in zona Cesarini (Renato, italo-argentino specializzato in ultime chiamate, giocò nel River Plate). Ecco, quella sera al Monumentàl, Maradona si giocava contro il Perù la qualificazione per i mondiali in Sudafrica – e la ottenne in zona Cesarini –, pioveva come in “Cent’anni di solitudine” sembrava che non dovesse più smettere per anni, e sotto quella pioggia faceva il suo esordio in nazionale Gonzalo Higuain. Che segnò anche. Era un gol alla Higuain: l’azione partiva da Lionel Messi – che allora aveva i capelli lunghi e sembrava davvero una pulce e il campo il dorso di un animale – che la passava a Pablo Aimar che facendo l’Hamsik inventava un corridoio in mezzo all’area che Higuain – senza barba – vedeva prima di tutta la difesa peruviana,  facendo sfilare il pallone fino al suo destro per piazzarlo nell’angolo opposto di Leao Butron. Quella partita e quel gol ci servono per raccontare il triangolo Maradona-Messi-Higuain. Anche se la storia di quella sera si chiama Martin Palermo e vale la pena di ricordarla, perché fu il suo gol che riportò l’Argentina in vantaggio dopo il pareggio del Perù con Hernán Rengifo. Dopo quel gol al 93′ tutti pensarono sotto gli ombrelli – sì, continuava a piovere – alla fortuna di Maradona, che festeggiò inzuppandosi tutto, mentre ballava la danza dell’incredulo. Dietro di lui, con la faccia triste da Califano d’Argentina che urla e corre uguale, vestito dallo stupore, fradicio di felicità, c’è Martin Palermo. Uno capace di sbagliare tre rigori in una partita, e di segnare di testa da 38 metri. Un dispari. E anche il più grande capocannoniere della storia del Boca Juniors, che può urlare alla notte argentina: «non è ancora finita». E vale più del bel gioco, e degli schemi, perché a segnare è un marcantonio, un chinaglione, che tutti danno per finito, e anche lui sta già pensando al dopo, e magari deve rassegnarsi a una nuova vita di comparsate per telefilm (Palermo aveva già cominciato nel “Patito Feo”) o peggio reality. E poco importa se è solo la bugia di una notte. Chi, non ha mai mentito, aspettando un altro giorno per essere sincero?  Quella sera si vide che il triangolo Maradona-Higuain-Messi aveva qualcosa che non andava se a risolvere la partita e a portarli al mondiale era il gol di un quasi ex, richiamato dopo nove anni in nazionale, in una riffa disperata di nomi che venivano fuori non per tecnica o prestazioni speciale ma per affinità col capo, che poi è sempre stato il più grande limite del Maradona allenatore. I grandi calciatori a eccezione di Cruyff non diventano mai grandi allenatori, pensate agli altri dieci dell’epoca di Diego: Platini e Zico. Poi venne il mondiale sudafricano, e Higuain che doveva giocarsi il posto con Milito, segnò una tripletta (uno persino di testa) alla Corea del Sud, e portò la squadra di Maradona agli ottavi. Il mondo aspettava i gol di Messi e invece arrivarono quelli di Higuain, che eguagliò due grandi argentini che avevano siglato una tripletta al mondiale Guillermo Stabile e Gabriel Batistuta. Con Messi – ora che rappresentano la speranza dell’Argentina nella prossima Copa America, quella del centenario – c’è un episodio quasi sconosciuto, di quando si incrociarono a un provino con le giovanili del River Plate, e per due giorni giocarono insieme, e sapete chi c’era con loro? Pablo Aimar, quello che poi farà da ipotenusa nel triangolo che porta al primo gol contro il Perù.

Ma il River Plate non se la sentì di scommettere sul ragazzino bravissimo ma che aveva un problema con l’ormone della crescita. Lo fece il Barcellona, cambiando la propria storia. L’Argentina nel mondiale  sudafricano andò avanti, e anche nella partita contro il Messico, Higuain segnò, tra due gol di Tevez; dopo arrivò la Germania e si videro tutti i limiti difensivi della squadra di Maradona, che si dimise e continuò a guardare Gonzalo e Lionel da lontano, strologando dietro i loro gol e le loro giocate mancate. Entrambi sono legati a lui: Lionel che si vide valorizzato da Maradona – forse anche troppo e col peso di dover sopportare il paragone e il non riuscire ad eguagliarne le gesta in nazionale –; e Gonzalo che aveva inseguito quella maglia al punto di chiedere a suo padre di intervenire di parlare con Maradona, ma Jorge rispose che la strada per portava alla maglia della nazionale passava solo per l’impegno e una caterva di gol, una risposta alla Cesare Maldini – come ha ricordato qualche giorno fa Paolo, suo figlio a Gianni Mura. Nell’altro mondiale, quello brasiliano del 2014, Higuain ci arrivò con una caviglia gonfia e l’aver forzato per giocare e vincere la Coppa Italia col Napoli. Sulla panchina della nazionale argentina al posto di Sergio Batista che aveva sostituito Maradona – in una Copa America disastrosa – c’era Alejandro Sabella, era il vice di Passarella al River Plate (sì, c’entra sempre) e conosceva bene Higuain, che lo ricompensò segnando il gol al Belgio, che porta l’Argentina in semifinale – mancava da Italia ‘90 –  una mezza girata al centro dell’area, di esterno destro, imprendibile per Thibaut Courtois. In finale, mancò due occasioni contro Neuer, gli annullarono un gol per un fuorigioco (la bandierina che si alzò a negargli la gloria era di Andrea Stefani): “el gol mas gritado que no fue”. Sbagliò molto anche Lionel Messi, tutto quello che normalmente a Barcellona finisce in porta, a loro si unì anche Palacio, poi Mario Götze pose fine ai tentativi argentini – proprio come era successo a Maradona nel ’90, allora fu Brehme –. Il resto è ancora Copa America, con in panchina Tata Martino, con Messi che segna solo su rigore (3 gol) e rifiuta il premio di miglior calciatore del torneo, e Higuain che proprio contro il Cile, dopo il rigore calciato da Messi, sbaglia, prima aveva segnato solo due gol (Giamaica e Paraguay). Dal Maracanà all’Estadio Nacional de Chile si sente ancora Javier Mascherano che urla: «Ya estoy cansado de comer mierda», che suona: sono stanco di mangiare merda, quasi una supplica. Quella di Messi e Higuain è una Argentina con molte pene e nessun oblio, che ora vola negli Stati Uniti per la Copa America 2016. L’ultima volta che hanno vinto c’erano Batistuta e Simeone, era il 1993 e si giocava in Ecuador: batterono il Messico; poi solo finali e sconfitte, tre per la precisione, senza riuscire a tornare a casa col trofeo. La generazione argentina col maggior numero di talenti rischia di finire il suo ciclo senza aver vinto nulla, con i due figli di Maradona incapaci di uccidere il padre, che, impastando pallone e Burruchaga, vinse l’ultimo dei veri mondiali.

Con Mourinho al Real Madrid

Dire le cose con chiarezza è uno dei modi di lottare. So che associare questa frase a un calciatore può suonare male per molti, ma spesso dagli spalti si dimentica che anche quelli che sono in campo e vengono super-pagati: sono delle persone, e magari hanno paura, stanno male, vorrebbero di più, e reclamano e lottano per averlo, perché dopo l’essere persone sono atleti, e un vero atleta vuole il meglio o atleta non è. Poi si può discutere di come possa perdere e cadere, di come possa illudersi e mancare gli obiettivi che si era posto, di come cerchi quegli obiettivi: se correttamente o meno, ma se non parte dal desiderare il meglio per sé e per la sua squadra non è un atleta vero. Non dico che bisogna fare come il grande Puskás che arrivò a dire: «Per me il calcio è stato molto più della vita». Ma una via di mezzo, come quella di Alfredo Di Stefano, che a Madrid sarà sempre “il calcio”: «Non si obbliga nessuno a giocare a calcio. Giocavamo perché ci piaceva e finivano per pagarci perché giocavamo bene».  Ecco, si gioca prima per vivere e poi per guadagnare, anche se poi si guadagna molto ed è innegabile che i soldi abbiano condizionato il gioco. Ma in mezzo rimane una possibilità di libertà, quella di pretendere il meglio dando il meglio. A Madrid quella possibilità a Gonzalo Higuain era stata tolta, per questo decise di andare via. Giocò la sua ultima partita con la maglia del Real Madrid, contro l’Osasuna: e segnò. Aveva la fascia da capitano, Cristiano Ronaldo era in tribuna, e in campo c’era un clima da ultimo giorno di scuola, molti di quelli che giocarono e segnarono, sarebbero andati via. Non solo Higuain ma anche Michael Essien, Mesut Özil, José Maria Callejon e Raúl Albiol. Era anche l’ultima panchina da allenatore del Real per José Mourinho, le cose non erano andate come aveva immaginato lui né il suo presidente Florentino Pérez: il portoghese aveva vinto ma non abbastanza, aveva vinto ma non la Champions League. Era anche lui vittima dell’insaziabilità madrilena. Sugli spalti qualcuno lo rimpiangeva, sul campo c’era una nuvola rumorosa di fotografi che rimandava l’inizio della partita, tutti erano lì per fermare il tempo dell’ultima presenza in Liga per lo Special One. Il portoghese aveva un solo colore scuro che dalla pelle passava alla sua una maglia, il risultato della partita non era importante. Ma Mourinho non si mise a sedere né in posa, anzi, girò le spalle ai fotografi e guardò il campo, e quando l’arbitro Fernando Teixeira Vitienes lo rimproverò per il ritardo che stava causando, tirò via solo il braccio sinistro dalla tasca dei pantaloni e lo allargò ad indicare i fotografi. Sembrava dirgli con la Mou-nonchalance che conosciamo: Amico è la fama, che ci posso fare? È curioso che “osasuna” in basco venga usato come brindisi, per dire forza e salute, prima di bere, e questo trasforma l’ultima partita in ultima cena, ma con un clima diverso, nessuno si affannava, nessuno doveva dimostrare niente, molte decisioni erano già prese. Tanto che il telecronista della tivù spagnola mentre descrive le azioni, fa anche da speaker aeroportuale: annunciando i voli per le squadre che vedranno arrivare i campioni che sono dati in partenza. Con qualcuno ci prende: tipo Essien al Chelsea – dove andrà Mourinho – e infatti subito dopo il gol il ghanese corre in panchina dall’allenatore e forse gli dice: Hai visto, non hai fatto male a chiedermi di seguirti, chissà. Sarà uno dei pochi sorrisi della giornata per l’allenatore portoghese; con qualcun altro il telecronista sbaglia di brutto, infatti nel giochino delle assegnazioni Gonzalo Higuain viene dato in quota Juventus – questo ci fa immaginare un fantaromanzo calcistico – poi i giornali scriveranno Arsenal (dove invece andrà il suo compagno di squadra Özil) e molte altre squadre, e invece l’attaccante argentino andrà al Napoli. C’era un bel sole che picchiava sul Santiago Bernabéu, Higuain aveva la maglietta numero venti, un filo di barba e addosso la tranquillità di una partita di calcetto. Il ritmo era basso, l’aspettativa era quella di una amichevole, l’Osasuna già salvo, di poco ma già salvo. In questo clima bisogna aspettare il ’35 del primo tempo per vedere Higuain che si invola verso la porta avversaria – proprio grazie a un passaggio di Essien, complice Ozil che la lascia sfilare tra centrocampo e difesa fino ai piedi dell’attaccante argentino –  e senza nemmeno entrare in area l’ha già piazzata in porta d’interno destro. Non esulta, anzi, inquadrato fa una faccia da Clint Eastwood, di quando dice: Il bello deve ancora venire, questo è quello che vi state perdendo. Nessuno va ad abbracciarlo, e lui da bandolero stanco, con calma, molta calma, torna a centrocampo. Forse sta ripensando alle parole di suo padre, durissime: «A Florentino Pérez non piacciono gli argentini. E non ha il coraggio di dirlo, anche perché ha tutta la stampa spagnola al soldo»; o sta ripensando al «Mejor pagado, me voy» che aveva urlato qualche settimana prima a Cristiano Ronaldo che lo invitava a posare con la nuova maglia del Real Madrid, ironizzando sulle dichiarazioni e il desiderio realizzato del presidente Pérez: fare del portoghese il calciatore più pagato della storia del club e del calcio; oppure sta ripensando alla Champions League del 2010, quella che aveva la finale al Bernabéu, quella del tutto calcolato: vinciamo noi, e alla partita col Lione, al suo tiro che finisce sul palo, dopo aver scartato anche il portiere Hugo Lloris ed essersi prima bevuto i difensori Cris e Boumsong, sbagliò molto anche Kaká, ma tutti ricordano quel palo e poi il gol di Pjanić che butta fuori il Real. Sì, è a quello che sta pensando, se fosse entrato quel tiro la sua storia sarebbe differente, e per quanto a Florentino Pérez possa piacere Benzema ci sarebbe quel gol a bilanciare le cose e invece non c’è. Ora il suo nome sarebbe sui muri, e invece no. Non che quello di Benzema li affolli, anzi ha un mucchio di problemi con la giustizia e qualcuno anche in campo; però quel giorno a Madrid solo in pochi immaginavano di dover rimpiangere Higuain. E forse per rabbia o per rimpianto che l’argentino arrivò a mettersi le mani addosso con Unai García che reclamava un rigore, tradendo lo spirito della gara e mostrando il nervosismo per una storia che poteva essere diversa, per un anno in più concesso al Real e sprecato, ascoltando Sergio Ramos che gli chiedeva di restare mentre lo Zenit si faceva in quattro per averlo. Poi segnò Essien su calcio d’angolo battuto da Ozil, e dopo anche Karim Benzema, ma la partita la chiuse un altro che era dato in partenza: Callejon, mostrando quella che sarebbe divenuta la sua specialità alla Houdini: apparire e scomparire alle difese avversarie; per l’Osasuna segnarono Torres e Alvaro portando la squadra di Pamplona per pochi minuti sul due a due. Poteva essere un racconto di Hemingway, quella partita? Sì, c’era un rompete le righe generale, c’era la delusione di non aver preso quello che il comando gli aveva chiesto, e c’erano un manipolo di sconfitti: il colonnello Mourinho, il mento poggiato sulle braccia incrociate e nella testa un’altra battaglia, la prossima. Il capitano Higuain, che ad ogni passo lasciava cenere come un vulcano, e dietro: il resto della truppa che si disperdeva, alla ricerca di nuovi eserciti, nuovi amori e soprattutto altri gol. In petto una chiara ostilità e la voglia trasparente e deliberata di dimostrare che si sbagliavano. Che trattarlo da seconda scelta era una ingiustizia enorme. Per una volta Gonzalo arrestava la sua corsa, smetteva di sentire gli applausi, di essere il fenomeno, e provava la vita di suo fratello Federico. Poi, complici Rafa Benitez e Aurelio De Laurentiis, si è ripreso quella modalità, di star e campione. Ci sono voluti tre anni e anche un altro allenatore, un padre, Maurizio Sarri, ma ora tutti parlano di lui, soprattutto i giornali spagnoli. La partita tra Higuain e la verità è stata vinta dal primo, non senza fatica. E potete giurarci che per molto tempo a Madrid ci sarà qualcuno a urlare a Florentino Pérez: «Perché?».

Con Sarri al Napoli

Adesso che Gonzalo Higuain rimarrà sospeso per sempre in aria – nel Subbuteo e nell’immaginazione dei napoletani – prima di colpire il pallone, che superando  Massimo Zenildo Zappino lo porterà a battere il record di Gunnar Nordahl, possiamo dire che per arrivare lassù ha dovuto smarcarsi dal dubbio e dalla perplessità che gli erano calati addosso dopo il rigore sbagliato contro la Lazio e contro il Cile. La sua è una delle vertigini più sudate e criticate degli ultimi anni di calcio, e per larghi tratti non vista o sottovalutata. L’estate dei suoi tormenti quella del 2015 ha portato a un anno di incanto. Dal Cile alla chilena (la rovesciata). È passato dalle risse a Ibiza – dove gli amici devono tenerlo perché vuole spaccare la faccia a uno che gli ha ripetuto l’offesa che fu di Bernd Schuster: «no sabe meterlas»  –  ai gol a raffica nel campionato italiano. Oscillando tra dubbi e gloria. E fin da quando Higuain lascia Madrid sa che il Napoli è un passo indietro rispetto al Real, ma è il passo indietro che ha compiuto suo nonno Santos Zacarìas, quando perde contro Dogomar Martìnez Casal e quando Sergio Victor Palma, il pugile che ha portato a vincere il titolo mondiale dei Super Gallo, smette e se ne va; è il passo indietro di suo padre Jorge e di suo fratello Federico quando lasciano il River Plate; è il passo indietro di suo zio Claudio Hugo Zacarìas quando deve arrendersi a una cosa assurda come una bomba in uno spogliatoio; è un passo da gambero che diventa salto da ghepardo. Quando arriva a Napoli, Higuain, deve far ricorso a tutta la sua umiltà – caratteristica che aveva colpito José Calderón e che forse non piaceva a Florentino Pérez – per ricominciare: a segnare, giocare, dominare. Nella doppia stagione di Benitez, questa rincorsa diventa febbre con degli eccessi di nervosismo verso i compagni e la porta. A tratti sembra un Nerone in area di rigore, pretende il pallone e non vuole sentire ragioni: persino quando la logica vorrebbe che il passaggio andasse ad altri; si lamenta, urla, segna ma non è contento, non è abbastanza. Non è solo egoismo, è che Higuain aveva un conto aperto con la squadra più importante del mondo, il rumore dei suoi gol doveva arrivare a Madrid. «Decime qué se siente». Sì, alla fine si è sentito. Ma ogni record ti rende solo. Pensate a quanto è stato solo Gunnar Nordahl lassù per sessantasei anni, prima che Gonzalo Higuain arrivasse a fargli compagnia e poi a sedersi un gol più su, segnando con una chilena. Tutto comincia con un ragazzino basco, Ramón Unzaga, che da Bilbao, a 12 anni, segue suo padre e si imbarca per il Cile, arrivando nel 1906 a Talcahuano. Studia, lavora come contabile per una miniera di carbone e oltre a fare atletica (cento metri, lancio del giavellotto e soprattutto il salto con l’asta) gioca a calcio, proprio per la squadra della miniera. E giocando prima al porto poi sui campi cileni, prese a fare una strana giocata: colpiva la palla in acrobazia, stando di spalle alla porta, era il 1914. Immaginate la meraviglia. Se Ramón Unzaga, invece che nel calcio avesse applicato l’azione nel salto in alto avrebbe anticipato Richard Fosbury: l’atleta che inventerà il salto dorsale mandando in pensione quello ventrale. Ma Unzaga amava il calcio e stupì tutti con questa strana giocata, all’Estadio «El Morro» di Talcahuano – che ora, claro, porta il suo nome, e dove c’è una statua che lo vede nell’atto di compiere la chilena, come verrà battezzata dalla stampa argentina che lo vide durante la prima edizione della Copa America con il Cile (in Argentina nel 1916). Unzaga era un mediano, che non disdegnava di andare in avanti – avrebbe detto Giovanni Arpino –, fu capitano del Cile, e morì a 29 anni per un attacco cardiaco. L’ultima squadra nella quale giocò fu l’Estrella del Mar. La chilena proietta in pochi secondi il calciatore fuori dal martirio quotidiano delle ossessioni consegnandolo – in caso di gol – alla coscienza condivisa di un popolo (quello della squadra). È quello che è successo a Higuain, se poi quando rimette i piedi a terra, è anche il calciatore del record di gol segnati nel campionato italiano, allora la sua figura si proietta in un orizzonte messianico, e la sua storia si affianca a quella maradoniana. Una storia di imprevedibili traiettorie, di angoli cercati e trovati e portieri battuti. Che comincia con Maurizio Sarri che invece di trattarlo da star gli parla da ragazzo, elenca gli errori ma senza recriminare e gli dice che può essere il migliore al mondo: anche se nel Napoli non ci sarà Lionel Messi a lanciarlo, anche se dovrà faticare non poco e dimagrire, anche se dovrà cambiare il suo approccio in campo; e lui capisce che si può fare, e lo fa.

Ascolta e segna, più di come aveva fatto con Benitez. Ascolta e migliora. Ascolta e continua a segnare, con una continuità che diventa specializzazione. Sparisce l’indolenza e con questa i tempi morti, lo si vede correre e maturare, correre e segnare – persino di petto –. E la somma dei suoi gol diventa il carnevale di un mondo, quello napoletano che in mancanza dello scudetto – mai c’era andato così vicino dai tempi di Maradona e con il miglior gioco visto in Italia dai tempi di Sacchi – si “accontenta” del primato. Il corpo di Higuain e la sua versatilità, diventano la transizione, e così il salto per compiere la chilena diventa il salto di una epoca (calcistica) quella delaurentiisiana, che passa da giovane promessa a squadra venerata. Nel momento della rovesciata c’è una congiunzione astral-calcistica tra la definitiva resurrezione di Higuain e quella del Napoli, che non avviene banalmente nel campo – inteso come terreno di gioco – ma sul campo. Nell’elevazione c’è la ricerca, quella di Higuain che da doppio (la disciplina della boxe del nonno e quella del calcio, la sofferenza del padre e dello zio, la dualità col fratello Federico, e soprattutto il doppio ruolo: regista e attaccante, praticato al River Plate e in alcune stagioni al Real Madrid) diventa unico: quell’autentico numero nove che macina gol, smentendo “illusioni, copiature e sbornie ideologiche sul falso nueve”, come ha scritto Gianni Mura; e la ricerca del Napoli, che smette di essere la squadra simpatica e diventa l’unica capace di insidiare realmente la tirannia juventina. La chilena di Higuain diventa il battesimo di tutto questo, l’avvio di una nuova azione, l’inizio di una nuova fase. In una città dove la costatazione quotidiana – poi divenuta pure verbo, romanzo e serie – è che sia più facile distruggere piuttosto che costruire. E anche se Higuain non lo sa, la sua chilena ha realizzato la bella giornata di Raffaele La Capria: “Voleva dire una gioia che sembra sempre lì, a portata di mano, proclamata dall’azzurro raggiante del cielo, e che però non si può condividere. Voleva insomma dire una idea ostinata in fondo alla testa, radicata nell’animo, nel sentimento delle cose, ed è rispetto a quell’idea che tutto si misura”; Higuain sale in cielo a prendere a calci quella idea, per metterla in porta, e segnando: condividerla. In un tempo di egoismi e con i socialismi ridotti a piccole fazioni nei distinti, è un calciatore che elargisce la possibilità di sogno alle masse. È un paradosso? Forse. Ma trovate un altro momento come quella chilena, un altro preciso istante nel quale Napoli ha ritrovato l’unità ed ha smesso di lamentarsi, ha ritrovato non solo l’orgoglio ma la consapevolezza della sua grandezza. È poco? Ma è un inizio, uno dei più belli concessi alla città e alla sua gente, negli ultimi anni. C’è un ragazzo che salta a prendere un pallone, ripetendo un gesto di stupore – che ha un secolo e che nacque dal sogno di un basco su un molo cileno – e con lui salta un intero popolo, tenendo il fiato sospeso, perché se il pallone non va in porta: si torna tutti alla normalità.

Marco Ciriello

Giugno 2016, “Il Mattino”

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