Maradona, storia di un declino
Nov 25, 2021

Nel 1989 Maradona è il giocatore più forte del mondo. Ha una città ai suoi piedi, alla quale ha regalato il primo scudetto della propria storia e una coppa Uefa. Anche la sua vita sentimentale e affettiva sembra andare a gonfie vele, non c’è un’intervista in cui non dichiari il proprio amore per la compagna Claudia Vilafane e per le piccole figlie Dalma e Giannina.

Mardona, Napoli e il Napoli

Un giocatore con un talento illimitato, un professionista con una barca di soldi e un uomo amato. Può esistere una ricetta migliore per la felicità? Probabilmente no, se la vita fosse un meccanismo razionale di obiettivi da raggiungere. Ma dietro ogni giocatore e dietro ogni uomo si nasconde un mondo complesso fatto di misteri più o meno consapevoli e contraddizioni. La ricerca della felicità segue infatti miliardi di itinerari, diversi per ogni essere umano. Itinerari che spesso non hanno nulla a che vedere con la popolarità e con ciò che si riesce a raggiungere. Percorsi personali che fanno si che si possa essere felici faticando per trovare da mangiare nel paese più povero del mondo o essere delle star amate e venerate eppure essere tremendamente depressi e inquieti.

Nell’estate del 1989 Maradona è stanco e tremendamente agitato. Ha voglia di cambiare, di essere qualcosa di diverso, ha in sé un’inquietudine ancora più forte di quella che lo ha sempre contraddistinto. Forse ha semplicemente voglia di provare a salvarsi, Maradona. E’ un uomo in gabbia che da tempo immemore sta combattendo contro la propria autodistruzione. Lotta armato di ansia, “come un bolide di Formula Uno che va a trecento all’ora e non si ferma mai. Ma questo non importa a nessuno”.

1984, l’esordio nel Napoli a Verona

Una delle cause di questa corsa assurda è la dipendenza dalla cocaina, da lui definita “L’errore più grande della mia vita, che porta ad uccidersi”.  C’è anche il  legame con la città,  divenuto con gli anni troppo stretto e viscerale. Maradona e Napoli, due entità che si amano e non conoscono mezze misure. Un rapporto accecante, plasmato sulla passione, che fa vivere e che a volte uccide. In cinque anni all’ombra del Vesuvio il fuoriclasse argentino ha conosciuto praticamente tutto della città, dagli aspetti più puri a quelli più burrascosi: l’affetto incondizionato dei tifosi, i paragoni con le divinità, i bambini che nascono in quel periodo che si chiamano quasi tutti Diego perché ogni napoletano a fine anni ottanta vorrebbe avere un figlio che assomigli a Maradona.. ma anche un sottobosco fatto di personaggi legati alla criminalità organizzata, che fanno leva sui punti deboli e ti succhiano il sangue. Uomini che ti venerano e allo stesso tempo ti stringono nella loro morsa senza che te ne rendi conto.

Il n. 10 per eccellenza

Se a Napoli è difficile essere semplicemente un giocatore di calcio per chiunque, figuriamoci come può esserlo per Maradona, il più forte di tutti, ma allo stesso tempo un tossicodipendente e un personaggio che per indole è naturalmente portato a cacciarsi nei guai. Maradona è in qualche modo consapevole di tutto questo, ha una famiglia che vuole proteggere e pensa ancora di potersi salvare. A fine  stagione 1988-’89  fa un patto con il presidente Ferlaino: “Ti faccio vincere la Coppa Uefa e tu mi fai andare via” . Un modo per uscire da vincitore, per interrompere un amore senza passare per traditore, come finire una relazione restando amici dopo essersi tanto amati. Il fuoriclasse argentino sembra pronto ad accasarsi all’ambizioso Olympique Marsiglia di Bernard Tapie, in una città sotto certi aspetti molto simile a Napoli. Qualcosa però va per il verso storto perché Ferlaino non rispetta l’accordo e rifiuta di cederlo non ricevendo il presidente della squadra francese venuto appositamente nel capoluogo campano. Maradona non la prende bene e si rifiuta di tornare dall’Argentina e di aggregarsi con la squadra.

Con il presidente Ferlaino e la Coppa Uefa

La situazione in pochissimo tempo prende le forme di una vera e propria sceneggiata di fine estate, con fiumi di inchiostro sprecati da giornalisti più o meno di parte e reciproche accuse di tradimento . Il braccio di ferro si conclude ad inizio settembre quando il figliol prodigo perdente Diego torna in città, accolto tra un misto di amore e scetticismo. E’ deciso a non tornare  in campo con nessuna squadra ma si sa, Maradona non ha mai fatto di coerenza virtù, è un personaggio a sé stante, completamente anarchico che negli anni si è legato al neo liberista Menem e al compagno Fidel Castro, sempre con la stessa convinzione e con la stessa enfasi. Dopo pochi giorni infatti Maradona torna ad incantare nuovamente il San Paolo e a guidare i suoi in vetta alla classifica con gol e assist a raffica.

Una classe immensa. Naturale

Nel mezzo c’è il matrimonio con l’amata Claudia Vilafane, celebrato con rito civile a Buenos Aires nel mese di novembre. La cerimonia brilla per cattivo gusto e sprechi fuori luogo per un paese in cui molte persone vivono in  condizioni di estrema povertà. Molta gente non perdona a Maradona quest’ostentazione ed  “El diez” al posto della marcia nuziale ritrova grida, insulti e minacce di morte. Una reazione in pieno stile sudamericano, un voltafaccia popolare, per un personaggio cresciuto nel nulla che non ha mai rinnegato le proprie origini ma che allo stesso tempo ha sempre ostentato la propria ricchezza in modo ingordo. Maradona non è mai stato un signore ma solo un popolano arricchito, un poveraccio che sapeva giocare bene a pallone e che quindi era finito a tirare cocaina, la droga dei ricchi negli anni’80. Uno che “vestito con un abito bianco ad una serata di gala avrebbe stoppato un pallone pieno di fango”. Un esibizionista tamarro ma allo stesso tempo un uomo/bambino tremendamente  passionale.  Al suo matrimonio la tensione esplode quando viene presa a calci la macchina in cui viaggiavano le  sue due figlie e  Maradona che risponde picchiando un fotografo. Nessuno sa cosa accade veramente nei festeggiamenti successivi alle nozze, se non che, come detto da molti “viene superato ogni limite di decenza”.

L’arresto in Argentina

Dopo la sbornia  Maradona torna regolarmente in Italia e a suon di gol e grandi giocate conduce il Napoli al suo secondo scudetto vinto in volata contro il Milan di Sacchi, con la famosa “monetina di Alemao” come pietra dello scandalo. A fine stagione ci sono i mondiali in Italia con l’Argentina che si presenta come campione in carica. Maradona è ovviamente il giocatore più atteso ma si presenta alla manifestazioni in non perfette condizioni fisiche e con una stabilità psicologica sempre più altalenante. A questo si aggiunge il fatto che ogni volta che gioca negli stadi del nord Italia viene subissato di fischi e di insulti. Maradona è in simbiosi con Napoli e per molti settentrionali il capoluogo campano è un peso e una “rovina per l’Italia intera”, come evidenziato in un becero coro da stadio molto diffuso a quei tempi. Siamo nel 1990, la contrapposizione tra il nord ricco ed industrializzato e il sud povero e in balia della criminalità organizzata è molto marcato. Il fastidio e il razzismo nei confronti dei meridionali è ai massimi storici, come testimonia in quel periodo l’aumento di consensi della prima Lega Nord, movimento politico ai tempi apertamente secessionista. Maradona paga in ogni partita il suo essere un uomo di Napoli e l’aver portato in trionfo una città così bistrattata.

 L’inizio dell’Argentina ai mondiali del ‘90 è da incubo: l’Albiceleste perde infatti 1-0 contro il Camerun nonostante gli africani finiscano la partita in nove uomini. Nel match successivo i sudamericani si riscattano battendo  2-0 l’Urss in un match viziato da un fallo di mano in area di rigore commesso dallo stesso Maradona che non viene visto dall’arbitro. Nell’ultima partita del girone i campioni in carica ottengono un magro 1-1 con la Romania che consente loro di qualificarsi alla fase successiva per il rotto della cuffia come miglior terza classificata. Agli ottavi gli uomini di Biliardo sono attesi dal derby sudamericano contro lo spumeggiante Brasile di Lazaroni e dell’altro “napoletano” Careca. I brasiliani colpiscono due legni in avvio di gara,  Maradona gioca praticamente con una gamba sola ma tanto basta per liberarsi di due uomini a metà campo a pochi minuti dal termine e servire l’assist a Caniggia  per il gol decisivo. Ai quarti i campioni in carica trovano la coriacea Jugoslavia e nonostante la nuova superiorità numerica la partita si conclude 0-0 dopo 120’ minuti. Si va ai rigori e incredibilmente Maradona sbaglia il suo tiro ma le parate di Goycochea permettono ad una bruttissima Argentina di arrivare alla semifinale contro l’Italia.

Nel Siviglia

Per ironia della sorte la partita si gioca a Napoli e i giorni che precedono il match sono uno psicodramma collettivo per i mille significati che assume questa sfida. A Maradona tornano in mente gli insulti che subisce in tutta Italia per il suo essere “napoletano” e allo stesso tempo è consapevole dei limiti suoi e della sua squadra che si trova ad affrontare la favorita principale per la conquista del titolo. Da qui tira fuori il suo capolavoro e la sua condanna: si rivolge a tutti i napoletani e li invita a tifare per lui, visto che “l’Italia vi considera feccia e chiede il vostro aiuto solo quando ha bisogno”.

Una grande verità di comodo, una chiara provocazione, un eccesso megalomane tipico del personaggio perché puoi anche essere Maradona ma non puoi pretendere  che un popolo tifi contro la propria nazionale in un mondiale giocato in casa. L’uscita però è ad effetto e suscita numerosi interrogativi. I 3 luglio 1990 la maggior parte dello stadio è ovviamente per l’Italia ma qualcuno dà retta a Maradona e il sostegno per la nazionale allenata da Azeglio Vicini è più tiepido di altre volte. La partita è piuttosto brutta, al gol di Schillaci replica Caniggia. Nella nuova lotteria dei calci di rigore Donadoni sbaglia, Maradona spiazza Zenga con un tiro lento e angolato ed esulta beffardamente, Serena sbaglia. Argentina nuovamente in finale, ancora contro la Germania.

Usa ’94, l’ultimo atto

In Italia la delusione è grandissima, doveva essere vittoria e vittoria non è stata. Serve un modo per sfogare la rabbia, un capro espiatorio e tutta la nazione si unisce nel tifo contro l’Argentina e in particolare contro Maradona nella finale giocata allo Stadio Olimpico di Roma.  L’inno nazionale argentino viene subissato di fischi, Maradona si infuoca e si lascia andare ad un plateale “Hijos de puta” in mondovisione rivolto al pubblico presente e a tutta Italia. La partita è ancora una volta orribile e viene decisa da un rigore inesistente trasformato da Brehme dopo che ne era stato negato uno ai sudamericani. Durante la premiazione Maradona è in lacrime e non è solo il pianto di un uomo che ha perso una finale dei Mondiali. E’ rimasto solo, con una nazione contro, pensava di avere un esercito e invece si trova a combattere solo una guerra che si è inventato lui e che è diventata simbolo delle proprie contraddizioni.  Nei giorni successivi il fuoriclasse argentino parla di complotti, accusa tutto e tutti, sembra sempre più un leone in gabbia, un Napoleone che vede sempre più vicina la propria Waterloo dopo essere scappato a testa alta da tante Isole d’Elba.

Allenatore al Gimnasia La Plata

 L’estate è poi ancora all’insegna dell’ennesimo braccio di ferro con Ferlaino nel tentativo di lasciare Napoli. Inizia la stagione  1990-’91 ma i problemi di tossicodipendenza iniziano a vedersi anche in campo. E’ chiaramente un giocatore in declino, che non ha più il piacere di giocare e non ha voglia di mettersi in discussione. Non si presenta agli allenamenti, viene per questo deferito dalla società, il rapporto con il direttore sportivo Moggi e l’allenatore Bigon è conflittuale. Gli resta solo l’affetto dei compagni di squadra che lo amano in maniera incondizionata e che lui tratta con estrema disponibilità. L’ episodio emblematico di questa fase decadente è la trasferta a Mosca di Coppa Campioni quando l’argentino non parte con i compagni e li raggiunge solo all’ultimo, entrando nel secondo tempo. Risultato, Napoli eliminato. E’ chiaro che questo Maradona è un peso per tutti, anche per Napoli e bisogna trovare il modo di liberarsene. Per delegittimare un uomo basta renderne pubblici i segreti e i particolari più oscuri e spinosi. Scovare qualcosa di sbagliato nella vita di Maradona è come sparare sulla croce rossa ed ecco che in tempo zero vengono diffuse delle foto con l’asso del Napoli in compagnia della famiglia Giuliano, clan egemone a Forcella. Foto vecchie, che vengono ripescate ad hoc e vengono date in pasto ai media. Ci sono poi i problemi giudiziari, le cause con il fisco, tutti aspetti che finiscono sulla pubblica piazza in un perenne processo di delegittimazione.

L’apice lo si raggiunge il 17 marzo 1991 quando, al controllo antidoping dopo Napoli-Bari, Maradona viene trovato positivo alla cocaina. La scoperta dell’acqua calda, ovviamente, Maradona è un drogato dai primi anni’80 quando giocava nel Barcellona. Come è possibile che abbia passato indenne tutti i controlli per un decennio? E poi.. che avesse legami con clan camorristi non era certo un mistero nell’ambiente. Come mai viene dato in pasto ai media solo dopo il turbolento mondiale? Maradona comprende chiaramente di essere stato usato: “So di aver fatto del male soprattutto a me stesso e quindi alla mia famiglia, alle mie figlie. Credo che in futuro imparerò a volermi più bene, a pensare di più alla mia persona. Non mi vergogno però. Non ho fatto del male a nessuno, salvo me stesso e ai mie cari. (…) Non voglio più essere costretto a giocare anche quando non sono in grado, a farmi infiltrare di cortisone perché devo essere in campo per forza per gli abbonamenti, per gli incassi(…) perché in ogni partita ci si gioca la vita. A me gli psicologi  stanno cercando di levarmi il vizio della cocaina, non quello di vivere”.

Frasi di grande consapevolezza, che si scontrano poi con un declino, che continua negli anni a venire. L’esilio a Siviglia al rientro dalla squalifica, gli spari contro i giornalisti nella sua tenuta in Argentina, il rientro per i mondiali di Usa ’94, magro e in forma come non mai,  la prodezza contro la Grecia, la nuova squalifica ancor più sospetta, per uso di efedrina. E quella sensazione di essere un burattino nelle mani di tanti bambini potenti, un burattino che diventa Dio nel momento in cui splende e che va sepolto in un mare di fuoco quando non vuole più essere un Pinocchio per tanti ricchi Lucignoli.Nelle eterne montagne russe della vita di Maradona vi è solo una triste costante, la cocaina, che lo porta in un paio di circostanze molto vicino alla conoscenza di una potente signora chiamata morte.

Come dichiara nel bellissimo documentario di Emir Kousturica Maradona la mano de Dios “ a cocaina mi ha rovinato tutti i momenti belli come veder crescere le mie figlie, i loro compleanni, l’amore con mia moglie, i successi in campo. Qualsiasi cosa succedesse io avevo sempre in testa la coca. E per questo mi porto un senso di colpa che non mi toglierò mai”. Ora di Maradona non si sente parlare molto spesso e forse non è poi così male. A 58 anni forse è riuscito in qualche modo a debellare la propria dipendenza e a far pace  con le proprie inquietudini. Ha preso  una ricchissima via di fuga e sverna in varie parti del mondo, allena ogni tanto qualche squadretta di cui nessuno riesce a pronunciare il nome e dalla quale viene spesso esonerato e fa parte del comitato organizzatore per i Mondiali in Quatar del 2022.

Ogni sua contraddizione, ogni suo paradosso è troppo lontano e oramai troppo noioso anche per il più incallito dei giornalisti. E’ semplicemente un uomo, con un ingombrante passato da portarsi appresso. Un uomo passato dagli stadi in visibilio alle cliniche di disintossicazione, dalle cerimonie di gala ai reparti psichiatrici. Di quest’ultima esperienza porta un aneddoto molto significativo: “Qui c’è chi dice di essere Giulio Cesare, chi Napoleone, chi Il Papa. Quando io dico di essere Maradona non mi crede nessuno.” Del suo presente dice “Ora sono tredici anni che non tocco più nulla e la mattina mi sveglio felice perché  posso stare con i miei figli”. Per tutti quelli che l’hanno amato, ammirato, odiato, stimato, bistrattato, insultato e probabilmente ogni participio passato può essere adatto a Maradona … resta una sola domanda irrisolta, che lui stesso si pone nel documentario di Kousturica: “D’altronde Emir, pensa cosa sarei stato se non avessi tirato cocaina.. che giocatore che sarei stato… che giocatore che ci siamo persi…”. “Confesso la mia capacità, la mia fragilità, anche se la mia presunzione, il mio orgoglio mi facevano apparire diverso”. Purtroppo o per fortuna Maradona è stato leggenda anche per questo, per la sua magnifica imperfezione, troppo umana per essere vera.

Valerio Zoppellaro

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