La storia di quel calcio che ci piace tanto raccontata con le figurine
Apr 23, 2022

Oggi è impossibile coglierli in fallo, abituati come sono alle telecamere, con le loro pettinature impeccabili, il sorriso sicuro, la maglia in perfetto ordine. Ma, una volta, i giocatori da immortalare nelle figurine venivano beccati dove e come capitava, sul campetto di allenamento o sui viottoli che conducevano negli spogliatoi, addirittura a ridosso del muro di cinta degli stadi.

Era la sorte di solito destinata ai più scarsi, quelli che – molto elegantemente – non venivano mai definiti riserve e che componevano l’esercito del «completano i quadri» o degli «altri titolari». Singolare quanto capitato ai ternani Platto e Biagini (album 1974-’75) fotografati addirittura fuori dal «Liberati». Oppure ai napoletani Ferradini e Fontana (1972-’73) costretti a palleggiare in un San Paolo vuoto, probabilmente a fine allenamento. I granata Roccotelli, Rossi e Quadri (1974-’75) furono colti in un lugubre scenario notturno. Si vede che, quel giorno, li avevano tenuti per ultimi. E forse veniva da una delle sue proverbiali zingarate l’attaccante Zigoni, fulminato dal flash in uno sguardo allucinato.

La storia delle figurine Panini si intreccia a quella del nostro calcio forse proprio in queste immagini rubate, non ufficiali, segno della precarietà dei tempi. Ci piace immaginare un pezzo di quell’Italia nel tifoso che si agita dietro la rete di recinzione o negli sconosciuti occupanti di una panchina che fanno da cornice all’ancora più sconosciuto Renato Roffi (1972-’73). Piccoli film strappati al calcio di quegli anni, specie quando i calciatori cominciarono a essere inquadrati a figura intera o in azione. Quel Marcello Tentorio con pantaloni lunghi e blu, a esempio, ci catapulta al polveroso stadio Cibali dei primi anni Settanta, con i ragazzini che stanno correndo alle sue spalle.

Nello stesso anno ecco Governato tutto impettito e dietro di lui un dirigente che sta parlando con un altro giocatore, magari quello che gli fregherà il posto. In fondo, oggi, sono queste le immagini che intrigano di più. Il primo album, quello del 1960, fa persino tenerezza. Non c’è mai uniformità, i fondi sono multicolori, i volti quasi stilizzati. Nelle maglie del Bari, a esempio, ci sono tre tipi di colletti diversi, le strisce rossoblu del Bologna non hanno la stessa ampiezza, nel Padova c’è chi ha lo scudo sul petto e chi no, persino la maglia della Sampdoria (la più bella che ci sia) ne esce sbiadita e Skoglund non portava neppure le strisce. Ma che importava, per la prima volta le figurine entravano in casa e i campioni degli stadi avevano finalmente un volto.

Perché non c’è storia che non cominci dall’inizio e quella della raccolta Panini ha un’origine singolare, incarnata da un personaggio ormai mitico, Bruno Bolchi, oggi come allora soprannominato «Maciste». Qualche decennio fa il suo volto avviò un’autentica rivoluzione, così come l’ha ricordata più volte Giuseppe Panini. «Voglio fare le figurine dei calciatori» disse un giorno al fratello Franco e assieme a lui cominciò a battere tutte le tipografie di Modena e provincia tempestandole con la stessa domanda: «Da una foto come questa si può ricavare una figurina a colori?». La foto era quella di Bruno Bolchi, mediano dell’ Inter, l’unica di cui disponevano i fratelli Panini. Rispose il fotolito Badolati di Parma: «Venite sabato prossimo, che vi faccio vedere». Una settimana più tardi, Badolati mostrò la figurina di Bolchi, proprio come la volevano i fratelli Panini. E nacque l’album del 1961-’62, il primo di una lunghissima serie. Particolare curioso: anche Bolchi cominciò a raccogliere le figurine e non trovò mai la sua.

Un Paese definitivamente uscito dal Dopoguerra e che comincia, finalmente, a divertirsi. Lo fa anche col calcio, certo. E quelle undici figurine undici per ogni squadra aiutano a rendere popolari volti di giocatori allora largamente sconosciuti. Dall’edizione successiva, la raccolta offre anche le foto di gruppo, quasi tutte scattate allo stadio. Dal 1962-’63, ci sono anche le immagini rappresentative della città, cartoline che ci restituiscono piccole finestre sugli anni Sessanta: mai vista piazza Duomo con le auto? Da non perdere, nelle ultime pagine, la rassegna delle vecchie glorie, utile anche ai lettori di oggi. Valentino Mazzola, Meazza e Piola in maglia azzurra sono camei da conservare per sempre.

Dal 1963-’64 c’è gloria anche per la serie B e i ragazzi del tempo scoprono la figurina con due giocatori, uno affiancato all’ altro. Confuso a tutti gli altri, ultimo della brigata, nel Cagliari c’è un giovane Gigi Riva, allora noto solo come Luigi. La grinta è già quella del futuro Rombo di Tuono. Prato e Pro Patria, che oggi si scornano nelle serie inferiori, allora dividevano un’intera pagina della B. Non tutti Carneadi quei giocatori, Regalia e Veneranda diventeranno allenatori. E nel Verona riecco Bruno Bolchi, stavolta, lontano dalla notorietà, sembra più sereno: meglio i Carletti, Cappellino e Maschietto che la solita intervista sulla prima figurina.

In quell’album finalmente vediamo da vicino gli assi stranieri, sono appena 4 ma bastano per tutti gli altri. Ecco Di Stefano e Puskas, per il Real Madrid, ed Eusebio e Coluna del Benfica. Ben presto l’Europa comincerà a parlare anche dei nostri perché sta arrivando l’epoca dei grandi successi internazionali di Milan e Inter ed è bello rivedere, 5 anni dopo la prima figurina, il volto vincente di Gianni Rivera, stavolta nell’ album 1964-65. Ora è lui la stella che brilla di più, con tutto il rispetto per Cesare Maldini e Giovanni Trapattoni, sempre l’uno accanto all’altro in tutte le raccolte di quegli anni. Molti anni dopo siederanno, in tempi diversi, anche sulla panchina della Nazionale.

Tanti degli allenatori di ieri e oggi allora calcavano i campi, da Ottavio Bianchi (Brescia) a Giancarlo De Sisti (Fiorentina), da Cesare Maldini e Giovanni Trapattoni (Milan) a Bruno Bolchi e Luigi Simoni (Torino). Nelle pagine della Spal troverete anche la storia di un’ amicizia. Ecco, giovanissimi, Edoardo Reja e Fabio Capello, mezzala destra e mezzala sinistra (allora si diceva così) di una squadra che a fine stagione avrebbe colto una sofferta salvezza. Capello l’ha sempre ricordato in ogni occasione: l’unico vero amico nel mondo del calcio è per lui proprio Reja. Entrambi della provincia di Gorizia e quasi coetanei (Reja è del ’45, Capello del ’46), allora erano sempre assieme e in trasferta dividevano la stessa camera d’albergo. Dopo pochi anni le loro strade calcistiche si sarebbero divise, il legame rimase ed è tuttora saldo.

In quella stessa squadra, e nello stesso campionato, ecco Osvaldo Bagnoli, allora uno dei senatori del gruppo: la sua espressione è già quella del futuro allenatore campione d’Italia col Verona nel 1985. Quell’album entrò nella leggenda anche perché, per la prima volta, ospitava le figurine degli arbitri. La rassegna, ovviamente, era aperta da Concetto Lo Bello, celebre «fischietto» degli anni Sessanta che ispirò addirittura un film. I colleghi di oggi gli invidieranno soprattutto la divisa che sembra quella di un ambasciatore, con stemma federale e vistoso colletto bianco.

Nel campionato di serie B, invece, un piccolo omaggio ai tifosi del Trani: da allora in poi la loro squadra non ha più disputato un torneo cadetto. Gli eroi del tempo si chiamavano Pappalettera e Crivellenti, Barbato e Galvanin. In un certo senso, indimenticabili anche loro. L’operazione nostalgia riguarda anche i tifosi del Lecco, quando sfoglieranno l’album del 1966-67 con le figurine dell’ultimo campionato in A. Qui abbondano i nomi famosi, con Sergio Clerici e Antonio Angelillo in testa e c’è pure l’ennesimo allenatore dei tempi nostri, Antonio Pasinato. Nessuno sorride, fra i 18 della rosa, né nelle foto individuali né in quella di gruppo. Come se già presagissero la futura retrocessione: la sola eccezione è quella di Malatrasi, che le sue soddisfazioni, in fondo se l’era già prese, ai tempi dell’Inter.

Dal 1967-’68 si arricchisce, negli album, la parte informativa, ogni figurina presenta una dettagliata biografia del calciatore e così vivono un piccolo momento di gloria società semisconosciute. Alla voce Alberto Spelta (Mantova) scopri che ha cominciato nel Fanfulla, nel passato di Amedeo Stenti (Napoli) ci sono anche Fedit Roma e Tevere Roma. Ma il ’68, oltre che per la rivoluzione studentesca, verrà ricordato anche per quella dei giocatori di B che finalmente, quell’anno, hanno diritto a una figurina propria, senza doverla dividere con un invadente compagno. Ecco, allora i primi piani di giocatori che prima si intravedevano appena, c’è gloria per i Mario Zimolo (Catanzaro) e i Claudio Galassi (portiere di riserva del Padova), per gli Elio Rinero (Verona) e i Renato Caocci (Genoa). Oltre, ovviamente, all’immancabile allenatore del futuro, il già allora arcigno Nedo Sonetti (Reggina).

Non sono solo album di figurine, ma anche piccoli libri di storia. Utili per chi non c’era o ha vissuto solo di racconti. Pochi dei ragazzi di oggi ci crederanno, ad esempio, ma anche il Mantova è stato in serie A. La sua ultima volta risale al 1971-’72 e da allora non lo abbiamo più rivisto. Fu una stagione strana, quella, caratterizzata dall’exploit in casa del Milan. Proprio in dirittura d’arrivo a San Siro la spuntò Panizza. Non era un ciclista ma un centrocampista di fatica e nell’album del 1971-’72 non figurava neppure tra i titolari. Vi era, invece, con un sorriso triste che già annunciava la retrocessione, Sergio Maddè. L’anno dopo, con la maglia del Verona, avrebbe tolto al Milan uno scudetto già vinto. Nonostante tutto, quel Mantova scese in B. Come le tante meteore di quegli anni, destinate a essere dimenticate se non ci fossero le care, vecchie Panini a strapparle dall’anonimato. Allora non c’erano videocassette, centinaia di fotografi o di telecamere a bordo campo e neppure tanti processi televisivi. Si retrocedeva e basta. Quel Mantova, però, esagerò, perché l’anno dopo scivolò pure in serie C.

Quell’anno retrocesse anche il Varese, nonostante la presenza di Trapattoni, venuto a svernare dopo i trionfi rossoneri. Ma poi in A ci tornò, stavolta per l’ultima volta, nel 1974-’75. L’album di quell’ anno rivela i volti di un implume Giampiero Marini, ancora ignaro del suo futuro destino di campione del mondo, e quello di Giacomo Libera, grande promessa che l’anno dopo poi finì all’Inter. Nella figurina verticale che lo rappresenta è già metaforicamente in partenza, un piede davanti all’altro verso il prossimo scatto. Rimase l’unico, perché a San Siro fu un fallimento.

Guardateli con calma gli album di quegli anni, senza la frenesia da «telecomando» con cui oggi sfogliamo quotidiani, riviste, libri. Ogni pagina rivela un segreto. Andatevi a vedere, per esempio, la faccia di Angelo Mammì, gloria di Catanzaro. Il 1971-’72 fu anche l’anno della prima volta in A del club calabrese e vinse la sua prima partita proprio contro la Juventus, che poi si sarebbe aggiudicata lo scudetto. Segnò proprio Mammì la rete dell’1-0 e per la gioia si fece mezzo campo di corsa. L’espressione, su quella figurina, è di chi sta prendendo la rincorsa, verso la gloria e verso le curve. Con i regolamenti di oggi gli arbitri lo avrebbero ammonito, allora la felicità si misurava anche in chilometri. Tornò in A, quel Catanzaro, e stabilmente però «quella» giornata resta indelebile nel ricordo dei tifosi.

Fu una meteora anche la Ternana di Corrado Viciani, stagione 1972-’73. Quell’anno la Panini dedicava a ogni giocatore sia il primo piano sia un’azione e in movimento viene raffigurato anche l’allenatore in una foto rivelatrice della sua filosofia. E’ davanti a tutti, nel guidare un riscaldamento prepartita, giusto per dare l’esempio. Predicava, allora, il «gioco corto», fatto di rapidi e piccoli passaggi per arrivare fino all’area di rigore. Ci volevano muscoli e polmoni e allora eccolo in prima fila, il mister, a dettare il ritmo. Purtroppo, quell’anno, oltre al gioco fu corta anche la classifica e la squadra tornò in B. Riemerse nel 1974-’75, prima di inabissarsi definitivamente. Della Ternana anni Settanta ci resta il verde di quell’Umbria, di quei prati e di quelle figurine, incorniciate nello splendido paesaggio della regione e poi la faccia malandrina di Romano Marinai. Facile continuare: donne e guai.

L’Umbria non sparì, l’ideale testimone della Ternana fu raccolto dal Perugia. Altro che meteora, quella era la squadra di un giovanissimo Novellino (e anche del compianto Curi) che nel giro di qualche anno sarebbe arrivata a sfiorare addirittura lo scudetto, specie quando non c’era Rossi. Con Pablito, purtroppo, arrivò anche lo scandalo del calcioscommesse. Sono gli anni, quelli, anche del Cesena e dell’Ascoli per la prima volta in serie A. Stupirono tutti, ma in positivo. I romagnoli approdano alle prime pagine dell’album Panini nel 1973-’74 e nel rivedere, oggi, quei giocatori, si capiscono tante cose. Si chiamavano Danova, Festa, Frosio, Ceccarelli e Braida, non proprio dei pivelli. E alcuni di loro hanno fatto fortuna anche fuori dai campi.

E poi, via, toglietevi lo sfizio di vedere com’era Mazzone con tutti i capelli. Lui il condottiero dell’Ascoli anni Settanta, tutti gli anni sicuro candidato alla retrocessione, tutti gli anni salvo con giornate di anticipo. Le figurine a campo intero, quelle del 1975-’76, dicono ancora di più: campo spelacchiato, gradinate fatiscenti, mute, semplici o improvvisate. La scuola della sofferenza è nata anche così..

«Cuccureddu, ha segnato Cuccureddu!». Fu un urlo belluino, quel lontano 20 maggio 1973, ad annunciare all’ Italia l’ ennesimo scudetto vinto dalla Juventus, proprio sul filo di lana. Ma, soprattutto, a rivelare l’ autentica fede calcistica del compianto Sandro Ciotti. Sì, aveva il cuore bianconero, il grande radiocronista dalla voce inconfondibile, ma era così bravo da averlo sempre tenuto nascosto. Quel giorno la gioia gli proruppe spontanea, perché era successo qualcosa di incredibile. Doveva vincerlo il Milan, quello scudetto, solo in testa all’ ultima giornata di campionato, ma crollò clamorosamente a Verona (3-5) probabilmente fiaccato dalla dura finale infrasettimanale di Coppa delle Coppe vinta contro il Leeds a Salonicco.

Poteva vincerlo la Lazio, che aveva un solo punto in meno del Milan, e sarebbe stata una piacevole novità, ma fu sconfitta al San Paolo dal Napoli. E allora, come sempre, ecco spuntare la Juventus, appaiata in classifica alla Lazio, pronta ad approfittare di quel doppio passo falso. Un campionato straordinario, sigillato da un gregario. Aveva fior di fuoriclasse, quello squadrone, da Haller a Bettega, da Anastasi a Causio, da Altafini a Zoff. Bello, invece, che la firma sullo scudetto fosse arrivata da uno dei meno noti. E’ il fascino immutabile del pallone, che rivive grazie anche alle figurine.

La Panini di quell’anno è rivelatrice: Cuccureddu guardava all’orizzonte col piglio sicuro di chi è pronto a qualcosa di grande. E, in azione, eccolo affrontare un giocatore del Verona. Un altro segno del destino. Non è scritta solo dai grandi la storia del calcio, e quella giornata ne fu la conferma. Ad affossare il Milan furono un paio di autoreti e i gol di Sirena e Luppi, diventati in seguito famosi solo per quello. Ma se andate a cercarvi sull’ album quel Verona del 1972-’73 rimarrete affascinati da un’altra immagine, quella del portiere di riserva. Era Angelo Colombo, che appare più vecchio dei suoi 38 anni per i capelli tutti bianchi. Qualche partita la giocò, tanto è vero che è ritratto anche in azione, durante una furibonda mischia al Bentegodi. Fa quasi tenerezza vederlo con la faccia sul pallone mentre tenta di schivare una ginocchiata di Perani.

Guardateli bene in faccia i tanti gregari del nostro calcio perché molti di loro hanno vissuto un giorno di gloria. E meritano di essere ricordati come, a esempio, il Roberto Mozzini della stagione 1979-’80, un altro improbabile uomo-scudetto. L’Inter quel campionato lo aveva virtualmente stravinto da mesi, però alla certezza aritmetica arrivò solo a due giornate dalla fine. A 2′ dalla fine, a San Siro la Roma stava vincendo 2-1 quando fu proprio il difensore venuto dal Torino, dove aveva già vinto il titolo del 1976, a riagguantare il risultato. Inter irraggiungibile e campione d’ Italia.

L’album di quell’anno è una galleria di fenomeni, a cominciare da Beccalossi per proseguire con tre futuri campioni del mondo (Oriali, Marini, Altobelli), un fratello d’arte (Giuseppe Baresi) e un allenatore (Domenico Caso). Però guardate l’altra pagina e scoprirete che quell’anno lo scudetto lo vinse anche Riccardo Bulgarani, 19 anni, capelli folti e neri, proveniente dal Parma. Era arrivato a Milano in prova, assieme a un certo Carlo Ancelotti, considerato però non all’altezza della maglia nerazzurra. L’unica cosa andata storta quell’anno.

Ci sono anche figurine che brillano per la loro assenza. Ci riferiamo a quelle del 1980-’81. Hai voglia a cercare calciatori rossoneri al loro solito posto, e cioè nelle prime pagine della raccolta, il guaio è che non ci sono proprio e per trovarne traccia bisogna spostarsi a fine volume, alla voce serie B. Quello, infatti, fu il primo (e non ultimo) campionato giocato tra i cadetti, effetto della retrocessione a tavolino sancita l’estate prima dal ciclone calcioscommesse. Fu una formalità, perché il Milan risalì subito, altrettanto rapidamente ridiscese per poi tornare in A per sempre. Però fa un certo effetto, oggi, vedere il glorioso Diavolo esiliato a fondo album, con una figurina divisa in due tra i giocatori del tempo. Tra tanti sguardi accigliati, colpisce quello intenso e fiero di Franco Baresi, leader già allora. Di questa fedeltà ai colori, anche in B, i tifosi gliene saranno eternamente grati.

L’album del 1980-81 (così come quello del 1982-’83) per i tifosi dell’Inter rappresenta una bandiera tanto più che il club nerazzurro in B non ci è mai finito. Ed è tra l’altro l’unico, in Italia, a non essere mai retrocesso: lo fu la Juventus, nel 1913, ma immediatamente ripescata nel girone lombardo. E ci fermiamo qui, per non inimicarci anche i tifosi bianconeri. A proposito di Juve, fu proprio la squadra allora guidata da Trapattoni a vincere quel campionato. E lo fece dopo aver sgomitato punto a punto, sino all’ultima giornata, con Roma e Napoli.

Decisivi, nelle ultime giornate, gli scontri diretti: fra Juve e Roma finì 0-0, con il famoso gol annullato a Turone per una questione di centimetri. Alla penultima giornata, poi, i bianconeri vinsero al San Paolo per 1-0, grazie a Verza. Per i tifosi di casa, fu più che altro un gol del cavolo, propiziato da una deviazione. Ironia della sorte, in quell’album Vinicio Verza è confinato a fondo pagina, ed ha la faccia arrabbiata di uno che non giocherà mai. Divide la fila con Carlo Osti, Claudio Prandelli (sì, l’allenatore di oggi) e Domenico Marocchino. Gente che di A ne avrebbe poi masticata tanta.

Ma la vera novità della raccolta, che esce all’alba degli anni Ottanta, è il ritorno degli stranieri. Bei tempi, quelli, quando ne arrivava uno per squadra, acclamato come un imperatore. Quell’ anno, nelle pagine Juve, spicca il sorriso perbene di Brady, che due stagioni dopo sarebbe andato via per fare posto a Platini. Ciò non gli impedì, all’ultima giornata del campionato 1981-’82, di segnare il rigore decisivo a Catanzaro, per l’ennesimo scudetto. Una pagina prima, non perdetevi quel mattacchione di Herbert Prohaska, con i suoi capelli rossicci e il baffo impertinente. Lo prese l’Inter, poi giocò anche nella Roma. Il Napoli puntò su Krol, arrivato in sordina, eppure autore di un torneo strepitoso.

Ma lo straniero più talentuoso lo prese la Roma, e si chiamava Paulo Roberto Falcao. I telecronisti di oggi lo pronuncerebbero «Falcon», per i tifosi giallorossi era semplicemente «Farcao» e già quell’anno la squadra, grazie alle sue geniali giocate, pose le basi per il fantastico scudetto del 1983, arrivato dopo 40 anni di attesa. Alla pagina dopo, ecco uno che invece non si fece rimpiangere, si chiamava Van de Korput, giocava nel Torino e tenne fede al suo cognome. L’Avellino compì l’impresa più significativa della stagione. Partì con 5 punti di penalizzazione per gli strascichi del calcioscommesse, subì i danni di uno spaventoso terremoto che costrinse la squadra ad allenarsi con grandi difficoltà, eppure si salvò. Grazie soprattutto al brasiliano Juary. Non sembra molto felice in quella figurina, probabilmente ammalato di saudade. Eppure il suo calcio era gioia e a ogni gol danzava, felice, attorno alla bandierina.

Il Bologna, infine, aveva Eneas e la sua stagione fu un vero poema. Bravo in campo, purtroppo anche in balera. Fateci caso, nell’ album del tempo è l’unico a sorridere fra tutti quelli del Bologna. Troppo seri gli altri, forse buttati troppo presto giù dal letto per le foto. Lui, chissà, arrivava direttamente dalla discoteca. E poi sarebbe il caso di sfatare una delle leggende metropolitane più dure a morire. Secondo una scuola di pensiero ormai radicata, l’ultima figurina in basso a destra della Pistoiese riguarda il peggior straniero mai arrivato sui nostri campi. Si chiamava Luis Silvio Danuello e gli fecero persino giocare sei partite. Per essere scarso, era scarso. Ma siamo proprio così convinti che quelli di oggi siano tutti fenomeni?

Eccoli i giocatori che ci fecero vincere un Mondiale. Loro, ovviamente, all’alba della stagione 198-’82 non se lo immaginavano neppure. A dire il vero, neppure noi, viste le premesse. Enzo Bearzot, tanto per dirne una, non aveva convocato Evaristo Beccalossi, il più talentuoso giocatore di quel campionato e si intestardì, invece, nella difesa di un gruppo uscito con le ossa rotte dall’ultimo Europeo. Per di più, si ostinò a puntare su Paolo Rossi che veniva da due anni di squalifica per il calcioscommesse. Grande talento, tutti d’accordo, ma arrugginito dalla lunga pausa. Fece in tempo a debuttare in campionato, giocando appena 3 partite. Un gol a Udine, nel debutto del 2 maggio, poi timide comparsate. Contro ogni logica, il ct se lo portò comunque in Spagna.

Il resto lo sapete. Dopo un girone iniziale da incubo, Pablito uscì fuori proprio nella fase cruciale del torneo: 3 gol al Brasile, 2 alla Polonia, 1 alla Germania. E l’Italia si laureò campione del mondo. Un miracolo, cui non aveva creduto neanche la Panini. Tanto è vero che nella raccolta di quell’anno, Paolo Rossi è proprio l’ultimo in fondo a destra. Nella Juve giocarono (e contarono) di più molti altri, da Cabrini a Tardelli, da Scirea a Gentile e Bearzot se li trascinò dietro tutti. E come caposquadra c’era Dino Zoff, il portierone. Aveva 40 anni, allora, ma nella figurina non li dimostra proprio. E non li dimostrerà neppure in campo: i brasiliani se lo ricordano ancora. Scovare i nostri eroi tra le pagine del tempo è un toccasana che ci aiuta a dimenticare le tristezze di oggi.

Consoliamoci con i ricordi. Nelle figurine del tempo ci sono già tracce rivelatrici di quello che capiterà. Fra i giocatori del Milan, a esempio, chi sorride di più è proprio Fulvio Collovati, l’unico a salvarsi da quella disastrosa stagione, culminata con la retrocessione. Bearzot lo convocò comunque e ne fu ripagato da prestazioni inappuntabili. Occhio alla pagina seguente, dove c è un tizio che somiglia pari pari a Gullit, giusto per i baffi. In realtà si tratta di Maurizio Venturi, prelevato dal Brescia appena retrocesso in B. Ripetè la stessa esperienza anche a San Siro. Cerchiamo, cerchiamo ancora. Dov’era Franco Causio, a esempio, compagno di scopa di Bearzot contro Zoff e Pertini sull’aereo del ritorno?

Bisogna arrivare a fondo album, sino alle pagine dell’Udinese. Sulla maglia del Barone campeggiava una zeta: era purtroppo solo quella dello sponsor, a noi piace pensare che simboleggiasse le sue irresistibili serpentine. Quell’anno fu utile soprattutto nello spogliatoio, col suo contributo di esperienza. Bearzot, nel giorno del trionfo, non si dimenticò di lui e a risultato ormai acquisito, lo volle in campo negli ultimi minuti contro la Germania. Poi spiegò perché: «Un uomo del suo valore meritava di calpestare questo prato». Col senno di poi, vedere un campione del mondo fra i tanti, onesti, comprimari di quella Udinese fa un certo effetto.

Sempre tra le fila dell’Udinese, ci piace ricordare il compianto (morì nel 1999) Orlando Pereira, unico straniero della stagione, abbandonato senza rimpianti al suo destino l’anno dopo e rimpiazzato da Edinho, che, almeno, tirava i rigori. Tutti maldestri tentativi, prima di arrivare alla soluzione giusta, soltanto due anni dopo, ed era quella che portava al nome di Zico. Da Causio a Bruno Conti, stesso ruolo, stesso genio. Le pagine della Roma, quell’anno, sono un inno alla bellezza del calcio. Ci sono quasi tutti i fuoriclasse che l’anno dopo avrebbero portato lo scudetto in città dopo 40 anni di attesa, con Falcao e Pruzzo su tutti. Conti ha l’espressione da leader soprattutto nella foto di gruppo. Guarda verso il fotografo e verso il futuro con l’aria di chi è pronto a prendersi pesanti responsabilità. Spicca, fra gli altri, il sorriso timido di Carlo Ancelotti. Solo apparenza, presto si trasformerà in un leone del centrocampo e in uno stratega della panchina.

Quell’Italia ci resterà nel cuore perché rappresentava varie anime del nostro Paese. Non mancavano giocatori della Fiorentina, grande protagonista della stagione con uno scudetto perso solo di un punto all’ ultima giornata. Anche al Mondiale Graziani e Antognoni si persero il più bello: l’attaccante dopo 7′ abbandonò per infortunio la finale, il secondo non la giocò proprio, dopo aver disputato tutte le precedenti partite. All’Inter, invece, capitò l’opposto di quello che le succede oggi e cioè fu protagonista proprio alla fine. Nella prima partita, giocata il 14 giugno 1982 a Vigo, l’unico nerazzurro in campo era Marini. Gli altri si conquistarono il posto un po’ alla volta. Trovò spazio anche Oriali, Altobelli contro la Germania segnò il terzo gol ma la rivelazione vera fu Beppe Bergomi, che non aveva ancora compiuto i 18 anni.

Bearzot l’aveva voluto in Spagna per fargli fare esperienza, invece fu costretto a buttarlo nella mischia addirittura contro il Brasile, dopo l’infortunio di Collovati. Il ragazzino giocò alla grande e non uscì più di squadra. Nell’Inter del tempo, Bergomi fa tenerezza con quei baffoni che vogliono nascondere, senza riuscirci, la giovane età di chi li porta. Emblematico il nome dello sponsor, Inno hit. E quell’ anno, in effetti, fu un inno verso l’alto. Non per quell’Inter, incomprensibilmente lontana dai vertici. Ci vollero Diaz e Matthaus per ricondurla allo scudetto, sette anni dopo.

Ma questa storia è fatta anche di oneste comparse. Arrivati troppo presto o troppo tardi in Nazionale, ma comunque campioni del mondo, fecero parte di quel gruppo anche giocatori che non scesero in campo neppure un minuto. Molti di loro ebbero tempo di brillare di luce propria come Franco Baresi, allora 22enne, Pietro Vierchowod, o lo stesso Daniele Massaro. Altra storia quella di Franco Selvaggi, il più dimenticato. Era attaccante e giocava nel Cagliari: toglietevi, almeno, lo sfizio di sapere che faccia avesse.

Fino ad ora avevamo scherzato, gli stranieri veri – quelli dei trionfi nelle coppe e dei record di abbonamenti – arrivano solo dopo il Mondiale vinto nel 1982, grazie al quale il nome Italia finisce sulla bocca di tutti. E’ un curioso scherzo del destino se si pensa che, nella stessa stagione, nessuna delle nostre squadre aveva superato il secondo turno nelle coppe europee. Adesso diventeranno fortissime. Le raccolte Panini, da questo momento in poi, sono un florilegio di campioni, davanti ai quali il solo Falcao – tra gli stranieri della prima ora – può reggere il confronto.

Già l’album del 1983-’84, andrebbe conservato fra i beni di famiglia. E’ quello che immortala la leggenda di Michel Platini e Zbigniew Boniek, arrivati un anno prima e che, proprio a partire da quella stagione, apriranno un sensazionale ciclo di vittorie, trascinando la Juventus alla conquista di due scudetti, una Coppa delle Coppe e una Coppa dei Campioni. Bravi loro, bravi quelli che c’erano prima, basta fermarsi alla prima delle due pagine dedicate alla Signora. I due califfi sono affiancati da una pletora di campioni del mondo, da Cabrini a Scirea, da Rossi a Gentile, fino a Tardelli.

Sull’altra facciata, spicca il volto ormai ascetico di Beppe Furino, alle sue ultime battaglie. Si avvia a conquistare il suo ottavo titolo. Travolti dalla passione popolare, i due stranieri dalla Juve conservano un invidiabile aplomb. Memorabili alcune battute del francese: «Volete intervistarmi anche oggi? Persino Einstein diventerebbe banale se parlasse tutti i giorni». Ma questa è soprattutto la stagione di Zico, il cui arrivo all’Udinese dal Flamengo fa impazzire un’ intera regione.

Il talento di Rio de Janeiro, che all’epoca aveva già collezionato 59 gol nella nazionale brasiliana, si presenta da vero extraterrestre: doppietta alla prima giornata e vittoria per 5-0 a Catania. Eppure i suoi 19 gol non basteranno a strappare la squadra da un anonimo nono posto, perché a ogni rete che fa, l’Udinese ne becca regolarmente 2. Quello è anche l’ultimo anno di Causio, che sull’album sorride sotto i baffi, pago di tanti successi dopo quindici stagioni in serie A. Occhio a chi c’è sotto di lui, si tratta dell’allora giovanissimo Massimo Mauro. Vivrà, da protagonista, un’epoca leggendaria perché presto diventerà compagno di squadra anche di Platini e poi di Maradona!

Il torneo 1984-’85, spartiacque tra il prima e il dopo, passerà agli annali soprattutto per lo sbarco fra gli umani di Diego Armando Maradona, l’uomo che dopo un attesa di sessant’anni avrebbe regalato al Napoli ben due scudetti. Non subito: se andate alle figurine di quella stagione, capirete perché. Il Pibe de Oro è circondato da onesti comprimari, i Penzo e i Dal Fiume, i Marino e i De Simone. Ci vorranno i De Napoli e i Giordano, i Ciro Ferrara e i Garella per trasformare, due anni dopo, i sogni in realtà. Così quel titolo sarà vinto – nella sorpresa generale – dal Verona di due outsider, il tedesco Briegel e il danese Elkjaer, che nella raccolta di quell’anno è ancora chiamato Preben Larsen. A dire il vero, anche se il regolamento non lo consente ancora, un terzo straniero il Verona ce l’ha. E’ quel Pietro Fanna che gioca da brasiliano.

La seconda metà degli anni Ottanta arricchisce il campionato di stranieri che fanno, quasi sempre, la differenza. I più affidabili sono gli argentini, che si adattano subito alle battaglie della serie Deludono, invece, gli inglesi. Nell’ album del 1985-’86, il Bari ne presenta due, uno più triste dell’ altro, Gordon Cowans, dolente e distratto, e Paul Rideout, uno che faceva ridere più che altro gli avversari. Altrove la politica dei blocchi è vincente. Berlusconi, neopresidente del Milan, azzecca la coppia giusta, tutta olandese, composta da Gullit e Van Basten. Presto si aggiungerà Rijkaard, quando le frontiere saranno ulteriormente allargate. E nell’album del 1989-’90 i tre sono tutti nella stessa riga, con lo stemmino della Coppa dei Campioni appena vinta nella finale di Barcellona contro la Steaua Bucarest.

L’Inter invece sceglie i panzer e non se ne pente. Fra uno scudetto e una coppa rossonera, c’è un po di gioia anche per i nerazzurri, quando nel 1988-89 ingaggiano Brehme e Matthaus che condurranno la squadra di Trapattoni a un irresistibile titolo. L’anno dopo, lo scudetto è sulla maglia di un altro tedesco, Jurgen Klinsmann, arrivato in estate. E un’epoca si chiude, le figurine si perfezionano, il ritocco del computer sfuma i contorni, non c’è più nulla da vedere o immaginare sullo sfondo. Come più nulla da immaginare ci offre la realtà di oggi, quella dei cento stranieri e delle mille telecamere. Teniamoceli stretti, allora, gli album di quegli anni, perché custodiscono il fascino di un’età perduta.

Nel 1989-’90 furono quattro le italiane ad arrivare sino in fondo nelle competizioni europee: il Milan si aggiudicò la Coppa dei Campioni, la Sampdoria quella delle Coppe e la Juventus batté la Fiorentina nella coppa Uefa in una sfida tutta nostrana. E, nel bilancio stagionale, va messa anche la coppa Intercontinentale conquistata dai rossoneri. La rivinsero l’anno dopo. Altri tempi, e le figurine lo stanno a testimoniare. Risale ad allora la più proficua invasione di stranieri della nostra storia, anche perché se ne potevano tesserare solo tre e non era consentito sbagliare. Oggi imbarchiamo chiunque abbia un nome esotico, costi poco e sia facilmente riciclabile.

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, arrivarono campioni del calibro di Klinsmann, Ruben Sosa, Rijkaard, Alemao, Balbo, Sensini che si aggiunsero ai campioni delle stagioni precedenti, da Maradona a Matthaus. I giornali dedicavano pagine e pagine ai nuovi arrivi e solo i più sfortunati finivano nell’esilarante rubrica «Fenomeni parastatali» della Gialappa’s band. Le raccolte dicono altro ancora: assieme ai fuoriclasse internazionali, in quegli anni era cresciuto tutto il nostro movimento. Perché se le Coppe arrivarono grazie a Van Basten, Rijkaard, Cerezo e tanti altri, nelle finali segnarono anche Vialli, Galia, De Agostini, Casiraghi e difensori come Baresi e Maldini ce li invidiavano tutti.

Paradossale, poi, aver fallito proprio il traguardo più importante, il Mondiale organizzato in casa. Gli album degli anni Novanta rivelano l’Italia del tempo, grassa e mai sazia di successi. Ben curate le fotografie, niente improvvisazione, la cornice è quasi sempre quella del campo di allenamento. Poche, per intenderci, le immagini scattate all’ultimo momento, magari a pochi minuti dal calcio d’inizio, mentre gli altri compagni si stanno riscaldando. I giocatori sono più attenti al look, le treccine di Gullit fanno tendenza, un po’ meno quelle di Caniggia, un giocatore legato a noi da bruttissimi ricordi: suo il gol che, nella semifinale con l’Argentina, ci costrinse alla roulette (poi persa) dei rigori.

Dal 1990-’91 in poi fioriscono coppie famose e la più sorprendente fu quella composta, nel Genoa, da Carlos Aguilera e Tomas Skuhravy, ideale contraltare ai Vialli-Mancini della Samp. L’album del tempo non a caso mette i due attaccanti rossoblù uno accanto all’altro. Si intendevano alla perfezione, sin da quella prima raccolta. Assieme segnarono gol a grappoli; così, mentre la Samp vinceva il suo primo scudetto, quel Genoa le fu di poco inferiore. Con Bagnoli in panchina, prima strappò alla Juventus la qualificazione europea battendola all’ultima giornata (a Maifredi quell’insuccesso costò il posto), poi in coppa Uefa l’anno dopo andò addirittura a espugnare il campo del Liverpool. Si fermò, poi, in semifinale battuto da quell’ Ajax che in finale superò un’ altra italiana, il Torino. Rieccola la magia di quegli anni.

Così forti, le squadre italiane, da potere – tutte – legittimamente aspirare a una coppa, ambizione oggi alla portata solo delle solite 2-3. A partire dalla Uefa vinta dal Napoli, nel 1989, non furono solo Milan, Juventus e Inter a guadagnarsi la ribalta internazionale. Dopo la Coppa delle Coppe vinta nel ‘ 90, la Sampdoria nel ‘ 92 perse solo in finale la Champions League, contro il Barcellona. Sfiorò la Uefa anche la Roma (battuta in finale nel ‘ 91 dall’ Inter). Poi, dal ’93 in poi, ecco la favola Parma.

D’obbligo uno sguardo alla raccolta di quel campionato. La squadra schierata all’inglese, sullo sfondo della tribuna del Tardini, le facce dei giocatori esprimono un ottimismo sconosciuto ai giorni nostri. Tutti sembrano già consapevoli del destino che li aspetta, dal «sindaco» Osio a capitan Minotti, da Alessandro Melli a Tomas Brolin. Di quel Parma ci innamorammo tutti, ogni anno un trofeo: dopo la Coppa Italia del ’92, la Coppa Coppe del ’93, la Supercoppa europea del ’94, la coppa Uefa del ’95. Mancò, è vero, lo scudetto ma mai si era vista una provinciale a così alti livelli internazionali.

Ma sfogliare gli album del passato non sempre scatena nostalgie, per i tifosi dell’ Udinese – a esempio – è l’esatto contrario. I primi anni Novanta segnano la fine della precarietà di sempre, quella scandita da salvezze all’ ultima giornata, cadute in B e sofferte rinascite. Risale infatti al 1993-’94 l’ultima retrocessione in B dei friulani del presidente Pozzo.

L’ultimo a riuscirci era stato il Grande Torino. Conquistò il primo scudetto nel 1942, fu interrotto dalla guerra, riprese a vincere subito dopo, smise solo nel 1949 quando il suo volo si fermò sulla collina di Superga. Poi qualche bis di Inter e Juventus fino a quando, dal 1982 in poi, il nostro campionato era diventato una splendida giostra: ogni anno vinceva una squadra diversa. Poi arrivò il Milan e si aprì un’ epoca. Anni terribili per la concorrenza, quella squadra non si limitava ad arrivare prima ma stravinceva contro tutti e soprattutto contro i luoghi comuni. Cosa si diceva prima di allora? Troppo stressante il torneo italiano, è già un’ impresa vincerlo due volte di seguito. Per non parlare della possibilità di conquistare, nello stesso anno, anche un trofeo europeo.

Quel Milan fece molto di più: di scudetti consecutivi ne colse addirittura tre, quando conquistò il primo non perse neppure una partita e quando arraffò il terzo, si prese, a fine stagione, anche la Champions League. Ma il luogo comune mandato letteralmente a pezzi fu quello che riguardava Fabio Capello, definito aspramente, da qualcuno, il maggiordomo di Berlusconi. Perché il presidente l’aveva voluto al Milan, dopo l’ addio a Sacchi? Per ordinargli volta per volta la formazione e assecondare le sue ambizioni, mai sopite, di allenatore, come ai tempi in cui guidava la squadra dell’Edilnord. Bastarono poche partite per capire di che pasta fosse Capello, considerato giustamente oggi fra i più bravi tecnici del mondo-

Liberata la squadra dagli schemi a volte troppo rigidi del predecessore, Capello fece del Milan una macchina schiacciasassi: 74 le reti all’ attivo, più di 2 a partita. Fra le goleade indimenticabili, il 5-0 al Napoli, il 5-1 alla Sampdoria campione d’ Italia, il 4-0 al Verona. Il finale fu da fuochi d’artificio con l’ 8-2 sul campo del Foggia. 34 partite, 22 vittorie, 12 pareggi e nessuna sconfitta. L’imbattibilità cadde solo nella stagione successiva, a campionato largamente già vinto, in casa contro il Parma, dopo una serie utile di ben 54 partite. Nel 1993-’94 quel Milan cambiò veste: meno spettacolare e più redditizio. Il risultato finale fu lo stesso, con l’ennesimo scudetto, stavolta condito da meno gol, ben nove 1-0 e una difesa indistruttibile con appena 15 gol al passivo.

Di quei campionati-fotocopia risentono anche le raccolte del tempo. Pochi gli innesti – non sempre decisivi – da una stagione all’altra, quasi sempre le stesse facce. Per completare l’album, la tentazione di sovrapporre le vecchie figurine a quelle nuove è forte. Il nucleo di quello squadrone è fatto dai soliti nomi, con Tassotti, Costacurta, Baresi e Maldini in difesa, Donadoni e Albertini a centrocampo, Massaro in attacco. Cambiano, quelli sì, gli stranieri: dagli olandesi Gullit, Rijkaard e Van Basten si passa agli slavi Boban e Savicevic e ai francesi Papin e Desailly. Ma, al di là dei nomi, c’è un marchio indistinguibile che rese pressoché imbattibile quel Milan, ed è riduttivo ricondurlo allo schema base del 4-4-2. Dietro tattica e uomini c’era una grande società. Nella rifondazione post-bonipertiana, la nuova Juventus guarderà, come modello, proprio a questo Milan. Gli porterà via lo scettro ma Capello, prima di andar via, riuscirà a vincere il suo quarto scudetto in cinque anni, quello del 1995-’96.

Gli anni Novanta, accompagnati dai trionfi berlusconiani dentro e fuori dal campo, vengono celebrati soprattutto dalla tv, strumento e fine del Grande Comunicatore. L’offerta e la domanda di calcio in quegli anni si moltiplica, non c’è turno di coppa europea che non venga abbondantemente coperto, a ruota della Champions League nascono fortunate trasmissioni, ogni sera della settimana offre gol, spunti, commenti e tante (troppe) chiacchiere. Il Processo del Lunedì trova un contraltare nell’Appello del martedì e i tempi sono ormai maturi per la nascita delle ormai vicine tv a pagamento. In che ambito si collocano le figurine, scavalcate da un calcio che si offre ora per ora ai suoi appassionati con la massiccia presenza delle televisioni? Non c’è ragazzino che non conosca ogni protagonista del campionato, dagli invincibili del Milan a quelli dell’ Ancona perché anche Glonek e Pecoraro Scanio (omonimia, semplice omonimia) finiscono, almeno una volta, sotto le telecamere.

Eppure, la magia rimane. La figurina fissa un’immagine e non la cancella più e il fascino si rafforza ai giorni nostri, se sfogliamo le raccolte di quegli anni. Varrebbe la pena, a esempio, gettare un’occhiata ad altri rossoneri, quelli del Foggia. Stessi campionati, stessi ottimi risultati, tenendo ovviamente conto degli obiettivi di partenza. Proprio guardando quei giocatori si capisce, oggi, perché Zeman è un grande allenatore. Allora erano pressoché sconosciuti i Baiano e i Signori, i Rambaudi e i Di Biagio, i Bresciani e i Cappellini. Col boemo sono diventati tutti calciatori di serie A e c’è chi è finito in nazionale. E il viaggio nel tempo aiuta ad apprezzare di più quello che si ha oggi: nel girone A della C1 c’ era anche il Bologna, cui nella raccolta 1993-’94 viene concessa giusto la foto di squadra, senza nomi dei giocatori, sullo sfondo di un Dall’ Ara semideserto.

E’ da sfogliare con tenerezza l’album del 1992-’93 e ha rischiato di essere l’ultimo. L’azienda allora era in crisi e solo successivi cambi di proprietà riuscirono, negli anni, a risollevarla. Appena 413 le immagini scattate, il minimo storico senza considerare la sperimentale raccolta degli esordi (1961-’62). Per la sorpresa dei collezionisti del tempo, le foto delle squadre erano già inserite sull’album. Il tutto all’insegna del risparmio, mai dell’ improvvisazione perché la qualità non ne risente. Le figurine non perdono la solita magia, riescono a ingentilire persino Montero, allora giovan virgulto dell’Atalanta, rivelano al mondo le folte capigliature di Zarate e Centofanti, che presto diventerà addirittura un idolo di San Siro («Noi abbiamo Centofanti, vaffa… a tutti quanti» canteranno gli interisti di bocca buona).

Certe immagini, è vero, sembrano strappate alla precarietà dei tempi,come quella del Chieti in C1. Squadra schierata in una nuvola di fumo, dalle tribune deve essere partito un razzo. Nessuno si scompone, tranne il primo giocatore accosciato a destra che sta già schizzando in piedi, vista la mala parata. Noi però sentiamo nostra anche questa arrangiata edizione del 1992-’93, va comunque accolta nell’album di famiglia come si fa con le vecchie auto che ci hanno accompagnato in giovinezza.

In realtà, più che i cambi di proprietà sono i cambi di maglia a rendere sempre più titanico il compito della Panini. Proprio nell’ autunno 1992 viene infatti liberalizzato il mercato e possono cambiare maglia anche i giocatori già impiegati in campionato da un’altra squadra della stessa categoria. Difficile abituarsi all’idea di un tuo beniamino che da una domenica all’altra può diventarti avversario e magari farti gol. Allora fu una rivoluzione anche per le figurine perché fino al momento di andare in stampa, c’era sempre il rischio che un giocatore dovesse improvvisamente cambiare casella. E’ un destino che all’inizio perseguitò i meno noti, come il caso davvero curioso di Mauro Picconi, centrocampista del 1965. Cominciò la stagione 1992-’93 in serie B col Modena, il 20 settembre andò a giocare con la sua squadra all’Appiani contro il Padova beccando una batosta memorabile (5-2). In autunno venne ceduto alla Ternana: stesso campionato e, dopo pochi mesi, stessa trasferta! Il guaio è che la musica non cambiò, con vittoria del Padova per 5-0 nella partita giocata il 22 novembre.

Con gli anni, invece, non mancarono nomi eccellenti. L’ esempio più clamoroso fu sicuramente quello di Ruud Gullit, uomo simbolo del Milan berlusconiano: vinse da protagonista uno scudetto, 2 Coppe Campioni e 2 Intercontinentali. Con l’avvento di Capello venne impiegato molto meno, mise comunque la firma sugli scudetti del ’92 e del ’93 segnando complessivamente 14 reti. Nel 1993-’94, improvvisa, la scelta di passare alla Sampdoria, ripagata dai risultati: ben 15 gol all’ attivo in una stagione coronata dalla conquista della coppa Italia.

La nostalgia di Milanello sembrò avere la meglio in estate. Repentino il ritorno di Gullit al Milan, alla seconda giornata del campionato 1994-’95 Ruud era già in gol a Cagliari, nella partita finita 1-1, risegnò la domenica successiva contro la Lazio (2-1), giocò tutte le partite di quello sfortunato inizio torneo, che vide il Milan sconfitto per ben tre volte, a Cremona (0-1), Padova (2-0), e a Torino con la Juve (1-0). Poi, a inizio novembre, il colpo di scena: ritorno di Gullit alla Sampdoria. L’olandese chiuse alla grande quel suo ultimo campionato italiano, con altre 9 reti. Significative le vicende del giocatore che fu ceduto al Milan in cambio dell’olandese e cioè Alessandro Melli: nell’anno solare 1994 finì col cambiare casacca tre volte: in maggio aveva chiuso il torneo nel Parma, a settembre era passato alla Samp, e a novembre eccolo al Milan. In rossonero lasciò poche tracce (1 sola rete) prima di chiudere la carriera con Parma (ancora!), Perugia e Ancona.

Tanti terremoti non colsero impreparati la Panini: nella raccolta 1994-’95 troverete Melli e Gullit al posto giusto, e cioè rispettivamente nelle pagine di Milan e Sampdoria. Durerà ancora poco, dopo sarà impossibile tenere botta ai troppi cambi in corsa, specie da quando la «coda» di mercato è stata spostata a gennaio.

E per restare al passo dei tempi, dal 2000 al 2002, sono state introdotte le figurine cambia-maglia dette anche trasparenti speciali. Possono fare quello che credono, calciatori, dirigenti e procuratori: la figurina non morirà. Il suo tentativo di bloccare in un’immagine il mondo caotico di oggi merita rispetto.

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