Erbstein, colui che per primo ha incarnato il modello dell’allenatore moderno
Gen 30, 2023

Fu il primo allenatore moderno. Visionario, tenace, innovatore. Costruì una squadra di geniali ribelli e in due anni portò la Lucchese in serie A. Scampato all’olocausto, morì nella tragedia di Superga. Ecco la storia di un uomo (e di un padre) straordinario.

Nel Grande Torino con Valentino Mazzola

Spiegare la shoah ai millennials non è affatto semplice. Per molti le leggi razziali e l’olocausto sono solo temi riassunti negli ultimi capitoli dei libri di storia. Quelli affrontati con più leggerezza perché ormai si è quasi alla fine dell’anno scolastico. Ma se alla narrazione e alla memoria dai forma con la voce dei protagonisti e al racconto aggiungi nomi e cognomi di persone che prima ancora di essere grandi sportivi furono uomini dai grandi ideali, allora la percezione cambia radicalmente. Ed è anche possibile che un cinema strapieno di giovani possa scoppiare in un fragoroso e spontaneo applauso dopo la visione di un documentario autoprodotto. Quei giovani non si sono lasciati distrarre dalle tentazioni che l’evento didattico fuori sede può provocare. E attorno al nome di Erno Egri Erbstein hanno fatto esplodere la loro commozione.

Erno Erbstein mentre palleggia

Già, Erbstein. Solo a pronunciarlo, quel nome, a qualcuno evoca ricordi da almanacco. Lui è un allenatore di calcio ungherese. Anzi, è colui che per primo ha incarnato il modello dell’allenatore moderno. Fino a quel momento la dimensione atletica era solo un fatto secondario. Lo stesso valeva per il controllo del regime alimentare e per l’impiego discutibile del parecchio tempo libero. Per Erbstein no, così non poteva andare. Riteneva il calciatore un atleta completo e come tale doveva comportarsi. Con lui ci si allenava tutti i giorni, si dovevano rispettare diete rigorose. E chi rientrava tardi la sera dopo un fuoriprogramma in balera trovava ad attenderlo i calci nel sedere dell’allenatore.

Nella Lucchese 1933-’34

Prima di assumere la guida tecnica della Fidalis Andria, Erbstein studia educazione fisica e tenta invano una carriera da giocatore oltreoceano. Col Cagliari vincerà il campionato di quella che oggi chiamiamo di nuovo serie C mentre col Bari debutta in A. Una carriera niente male, fino a quel momento. Ma il meglio (e il peggio) dovevano ancora venire. La sua storia, quella sportivamente gloriosa, inizia con la chiamata di Giuseppe Della Santina, presidente della Lucchese. È un ingegnere, un costruttore visionario che ha denaro a disposizione e un sogno: quello di raggiungere la massima serie. Erbstein ci riuscì, compiendo un’impresa straordinaria. Portò la Lucchese dalla Prima divisione alla A in soli due anni. Un traguardo che fino a quel momento nessuno aveva mai raggiunto. Sotto la guida tecnica di Erbstein, la Lucchese del 1936-’37 finì la stagione al settimo posto restano perfino imbattuta in casa. Quello è ancora oggi il miglior risultato assoluto della società.

A tavola con i suoi giocatori

C’è però un altro aspetto della vita di Erno Erbstein. Una questione quasi trascurabile. Almeno fino al 1938, anno in cui furono promulgate le leggi razziali contro le persone di religione ebraica. Sì, Erbstein era un ebreo ungherese. Il sabato e la domenica lo si trovava allo stadio. Sempre. Moglie e figlie erano cattoliche. Susanna, la più grande, era cresciuta in Toscana. Studiava a Lucca, dov’era cresciuta e dove frequentava il liceo classico Machiavelli. Neppure sapeva di avere origine ebraiche.

La figlia Susanna ritratta al cinema “Astra” di Lucca

“Potevo contare su due genitori meravigliosi. Ero felice, avevo tutto. A scuola ottenevo ottimi risultati. Non mi etichettarono come secchiona solo perché m’impegnavo anche nello sport. Vinsi parecchie gare di atletica…”. Il ricordo di Susanna Egri è lucido, puntuale, vivido. Ha più di novant’anni, ma condivide i frammenti della sua storia come se i fatti risalissero all’altroieri. Lo fa davanti a una platea di giovani arrivati nel cinema Astra della sua città adottiva per assistere alla prima proiezione del docufilm “L’allenatore errante”. Un’opera didattica realizzato da Pier Dario Marzi ed Emmanuel Pesi in collaborazione con i ragazzi della terza media di Camigliano. “È proprio qua, a Lucca, che ho subìto la più terribile frattura della mia vita. Quando vennero fuori le leggi razziali scoprimmo che mio nonno era ebreo. Nella vita di mio padre non c’era nessuna traccia evidente di questa appartenenza, tant’è che io ero cattolica. Ma per loro ero ebrea. Per i nazifascisti dovevo essere perseguitata e non potevo più frequentare la scuola. Per evitarmi le umiliazioni, mio padre mi portò via da Lucca. Così ci trasferimmo a Torino. Lui ottenne l’incarico di allenatore. Ignoravamo che l’obiettivo finale di tutto questo era la camera a gas. Fortunatamente siamo sopravvissuti. Accadimenti tragici e circostanze fortuite ci hanno permesso di tornare in Italia dopo la fine della guerra”.

La Lucchese 1936-’37

Anche Torino era una città scomoda. La società si accordò con il Rotterdam per uno scambio di allenatori: Erbstein in Olanda e Ignác Molnár in Italia. Molnár a Torino arrivò senza grossi problemi. Del resto non era ebreo. Erbstein no, il suo visto fu rifiutato per ben due volte. Così decise di fare ritorno a Budapest con tutta la famiglia. Ma né lì né altrove furono mai al sicuro. “Mio padre era nato in Ungheria ma aveva un cognome prussiano di origine nobiliare. Non so in quali circostanze i nostri avi avevano lo avevano preso. So però che in quel momento, con tutto quello che il nazismo stava facendo, era scomodo portare un cognome tedesco. Sostituimmo Erbstein in Egri. Non solo perché era tipico ungherse, ma perché aveva anche il suono di un cognome italiano”.

L’omaggio del popolo della Lucchese a Susanna Erbstein

Passarono anni di dolore e di lotta per la sopravvivenza. Anni di nascondigli e clandestinità in cui più volte sia Erno sia Susanna rischiarono la fucilazione o la deportazione. Sui vagoni che portavano ad Auschwitz non sono mai saliti, ma ci sono andati molto vicini. Si sono salvati la vita a vicenda almeno tre volte. “Se non avessi avuto un padre meraviglioso non mi sarei più risollevata” racconta oggi.

Prima della persecuzione quel padre meraviglioso aveva messo in piedi una Lucchese altrettanto meravigliosa. E allora ecco che tornano a galla nomi e cognomi di grandi uomini. Pardon, di grandi calciatori. A unirli non erano soltanto le qualità tecniche, la tenacia e una buona dose di follia. A tenerli insieme c’erano anche i principi antifascisti. Tra questi giovani uomini spiccava Bruno Neri. Prima di arrivare a Lucca giocava nella Fiorentina. Frequentava gli intellettuali delle Giubbe Rosse e in campo si rifiutava di tendere il braccio. Piuttosto che fare il saluto romano simulava perfino un fastidioso prurito al ginocchio. Quando scoppiò la guerra si tolse la maglia rossonera per indossare i panni del partigiano, a Marradi. Fu fucilato da una pattuglia tedesca.

Insieme a Neri c’erano anche Bruno Scher (roccioso difensore di fede comunista che pur di non cambiare il suo cognome smise di giocare) e Libero Marchini, che suo padre (anarchico) avrebbe voluto chiamare Libertario. Non è un caso che Libero, durante le Olimpiadi di Berlino del 1936, si fece fotografare insieme a Jesse Owens, velocista americano dalla pelle nera che vinse l’oro di fronte a un contrariato Adolf Hitler. E poi c’era lui, il portiere Aldo Olivieri. Lo chiamavano “gatto magico” perché nonostante il suo metro e settantacinque, con quelle mani arrivava ovunque. Un avversario gli ruppe il cranio con i tacchetti. Carriera finita, dissero i medici. Ma lui, testardo e ribelle, tornò in campo. Al Porta Elisa parò il rigore calciato da Giuseppe Meazza (l’Ambrosiana Inter perse uno a zero) e con l’Italia vinse i mondiali del 1938.

Dopo la guerra anche Olivieri raggiunse Torino. Fu Erbstein a volerlo con sé. Perché, scampato al massacro, l’allenatore errante riprese la guida dei granata. Anche qua raggiunse l’apice della storia calcistica della società vincendo cinque scudetti e consegnando alla nazionale ben dieci titolari su undici. Sì, quello era il Grande Torino. Olivieri, che era passato al Brescia nel 1942 dopo 113 partite in granata, è morto a Camaiore nel 2001. Erbstein, sopravvissuto all’olocausto, ha perso la vita nella tragedia di Superga insieme a quella che fu definita la squadra più forte del mondo. Era il 4 maggio 1949. Aveva solo 51 anni. E ora? Chissà, magari prima o poi lo stadio Porta Elisa potrebbe legittimamente portare il suo nome. Perché Erno Erbstein, prima ancora di essere un grande sportivo, era un grande uomo. Sì, proprio lui. L’allenatore errante.

Gianluca Testa

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