Come un Cristo deforme nel fango di Acerra
Ott 31, 2021

Di Maradona è stato detto tutto. Scriverne significa esporsi al pericolo di ripetere ciò che già si sa. Un compito ingrato, quindi. E che tuttavia, per forza di cose, ti consente – o ti costringe – di offrire la narrazione, profondamente personale, di un’emozione indecifrabile. Ché, in fin dei conti, Diego, per Napoli e buona parte della Campania, continua a rappresentare questo soltanto: uno stato d’animo confuso, ambivalente, dai confini incerti: sguazza nell’irrazionale, si riversa nel sacro, rigurgita contraddizioni, che si riverberano per le arterie della città. Vi evoca ricordi suggestivi di successi irripetibili, e, in pari tempo, la sprofonda in una cupa nostalgia, ebbra di desideri irrealizzati.

 

 

Sarebbe superfluo dilungarsi sui gol, gli assist, gli scudetti o il Mondiale vinto con l’Argentina. Di lui preferiamo ricordare una partita che in pochi conoscono: un’amichevole, disputata ad Acerra, un comune situato a circa 15 chilometri a nord di Napoli. Era il 1984, un freddo pomeriggio invernale. Tra edifici fatiscenti, su cui si confondeva un cielo grigio, un campo da calcio ai limiti della praticabilità, appesantito dalla pioggia e dal fango. La gente a bordo campo, delimitata solo da recinzioni improvvisate, ad osservare incredula Diego Armando Maradona, riscaldarsi tra le macchine parcheggiate all’esterno della rete protettiva. Laddove certi “campioni” non riuscirebbero nemmeno a camminare, gli abitanti di Acerra – rapiti e meravigliati – l’hanno visto correre, sporcarsi e creare, senza risparmiarsi.

Quella partita fu organizzata per un bambino del posto: per aiutare la famiglia a pagare un delicato intervento chirurgico che gli avrebbe salvato la vita. Il padre del ragazzino, disperato, si rivolse a Pietro Puzone (foto a fianco), ex attaccante del Napoli, originario di Acerra, per chiedergli di organizzare un evento che avrebbe potuto raccogliere i fondi necessari. Nulla da fare: troppo rischioso per l’incolumità di calciatori che dovevano vincere il campionato. Ma fu proprio Maradona a non accettare la decisione del presidente Ferlaino. Diego fu disposto anche a pagare un indennizzo di 12 milioni di lire alla sua assicurazione. Che si fottessero i Lloyd di Londra! Quella partita si doveva giocare.

A quanto pare El Pibe era solito prestarsi a gesti simili. Lo faceva con naturalezza. E in silenzio, senza spiattellarlo in giro nella speranza di assicurarsi consensi. Semplicemente non gli interessava.

Al di là di gol chimerici e vittorie epiche con una squadra imbattibile, il suo passaggio a Napoli pare aver lasciato una traccia più profonda: l’amore della gente. «Arò s’ chiagne e l’aria fiet’ ‘e sangue e nient’ cagn’. L’affett è ‘na conquista pe’ chi è figl ‘e nisciun» (cit. Co’Sang). Maradona è entrato nella carne di questa città: «un paradiso abitato da diavoli», forgiato con la stessa «materia di cui son fatti i sogni». Sogni di rivalsa, anche sociale, per una terra tragica e meravigliosa: martoriata e sfruttata. Mai riconosciuta davvero come Italia.

 

 

 

 

 

Maradona, in sette indimenticabili anni, è divenuto un simbolo per i terroni, figli rinnegati del Meridione: un sudaca, uscito dal ventre della miseria, chiamato a redimere le periferie del mondo, da Villa Fiorito a Napoli: villas de emergencia, situate in opposti emisferi, ma appartenenti ad uno stesso Sud. Come un Cristo deforme, sgraziato dagli eccessi e le cadute, alla guida dei diseredati della terra.

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